di Roberto Iannuzzi *
Quando le piogge torrenziali della tempesta Daniel hanno colpito la Libia, era prevedibile attendersi dei danni, ma si sarebbe potuta evitare la catastrofe se il paese non fosse stato devastato da quasi tredici anni di guerra. Invece, il crollo di due dighe malmesse, che non avevano più ricevuto manutenzione dallo scoppio del conflitto, ha provocato una gigantesca ondata che ha spazzato via interi quartieri di Derna, città porto di quasi 90.000 abitanti nella Libia orientale.
Il bilancio, tuttora provvisorio, è spaventoso: oltre 11.000 morti, che potrebbero arrivare a 20.000 visto l’enorme numero di dispersi. La Libia è allo sbando, ed anche la macchina dei soccorsi, malgrado gli sforzi encomiabili dei libici, è carente, rischiando di aggravare ulteriormente il bilancio.
La divisione della Libia in due governi in guerra fra loro complica ulteriormente le cose. Ma soprattutto, sono gli aiuti internazionali ad apparire drammaticamente insufficienti. Il fondo di emergenza dell’Onu ha stanziato 10 milioni di dollari, gli Usa 11 milioni, l’Unione Europea poco più di 5 milioni di euro.
Briciole, se si tiene conto delle enormi responsabilità della “comunità internazionale” – espressione con cui, in Europa e negli Usa, solitamente ci si riferisce soprattutto ai paesi occidentali – nella catastrofe bellica, economica ed ambientale in cui si dibatte la Libia.
Una società turca aveva cominciato ad effettuare lavori di manutenzione alle due dighe nel 2007. A causa di problemi di bilancio, e poi dello scoppio del conflitto nel 2011, i lavori interrotti non sono più ripresi. Molte società straniere non sono più tornate in Libia dopo il 2011, o perché reclamavano risarcimenti o perché consideravano il paese non sicuro. Ora le vittime di questa terribile alluvione si sommano alle decine di migliaia (nessuno ha mai tentato un bilancio complessivo) del conflitto.
Prima del 2011, la Libia, seppur governata da un leader eccentrico, e talvolta brutale con oppositori ed islamisti, figurava al primo posto in Africa (al 53° nel mondo) secondo l’Indice di sviluppo umano dell’Onu. Il paese, rurale ed arretrato quando il re fu deposto quarantadue anni prima, era divenuto uno Stato con una moderna economia, un alto tasso di istruzione, assistenza sanitaria gratuita e un’elevata aspettativa di vita.
L’intervento militare della Nato nel paese fu giustificato con l’urgenza di prevenire un “massacro di civili” da parte del regime a Bengasi, dove forze ribelli avevano preso il potere. In realtà una successiva indagine del parlamento inglese (risalente al 2016) stabilisce che Gheddafi non stava pianificando affatto di sterminare i civili, che i ribelli avevano una “significativa componente islamista” e violenta, e che la strategia britannica nel conflitto non fu guidata da un’“intelligence accurata”. Inoltre, l’intervento occidentale, formalmente giustificato dalla risoluzione 1973 dell’Onu che contemplava l’uso della forza per “proteggere i civili”, ne travalicò il mandato e puntò direttamente al “cambio di regime”, sostenendo apertamente i ribelli e compiendo attacchi volti a “decapitare” i vertici del governo libico, Gheddafi incluso.
La violazione occidentale del mandato Onu provocò una grave spaccatura con Russia e Cina, che si erano astenute in sede di votazione, e denunciarono il tentativo di rovesciare Gheddafi. Questa spaccatura avrebbe avuto serie ripercussioni nelle successive crisi internazionali, a cominciare da quella siriana, paralizzando il Consiglio di Sicurezza.
Come emerse più tardi, francesi, inglesi e americani perseguivano obiettivi che poco avevano a che fare con la “protezione dei civili”. Mentre sia Parigi che Londra avevano interesse ad impadronirsi di una quota maggiore delle risorse petrolifere del paese, la prima temeva anche che Gheddafi potesse fornire agli Stati dell’Africa francofona un’alternativa al franco CFA. I servizi di intelligence francesi erano in Libia già alla fine del febbraio 2011, ben prima dell’approvazione della risoluzione Onu, per “organizzare” i ribelli.
Gli Usa, dal canto loro, erano animati più in generale dal desiderio di dare un’“impronta americana” alle tumultuose rivolte che stavano travolgendo la regione ed avevano già messo in ginocchio diversi regimi filo-occidentali.
L’intervento Nato destabilizzò un’area vastissima. Armi e munizioni degli arsenali del regime, cadute nelle mani dei ribelli, furono contrabbandate dal Sahel al Medio Oriente. In Mali, le armi libiche alimentarono la dormiente rivolta dei tuareg destabilizzando il paese. Ma esse giunsero fino in Ciad, Niger, Nigeria e Burkina Faso, finendo nelle mani di gruppi jihadisti come Boko Haram e l’Isis. Secondo la Banca Mondiale, il Pil pro capite della Libia è crollato del 50% fra il 2011 e il 2020, mentre sarebbe potuto crescere del 68% se l’economia avesse seguito la sua tendenza pre-conflitto.
La distruzione della Libia ha anche esacerbato la crisi migratoria, visto che il paese non solo fungeva da filtro per i flussi diretti in Europa, ma era esso stesso paese di approdo, dando lavoro a numerosi migranti africani. La catastrofe di Derna è simbolo e conseguenza delle politiche sconsiderate che l’Occidente ha condotto per decenni, calpestando il diritto internazionale, dalla ex Jugoslavia all’Iraq, e contribuendo in maniera determinante a provocare quel “disordine mondiale” che oggi tanto deplora.
* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC
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