Marelli ha sospeso la decorrenza della procedura di chiusura di Crevalcore fino al prossimo incontro del 28 settembre con i lavoratori. Lo rendono noto Fiom, Uilm, Fim, Fismic, Uglm e Aqcfr parlando di un “primo importante risultato” che “permetterà di iniziare il confronto” con l’azienda controllata dal fondo Kkr “senza un contatore già attivo”. I sindacati chiedono che il faccia a faccia con l’azienda permetta di maturare una “soluzione che dia continuità produttiva e occupazionale” alla fabbrica bolognese, per la quale Marelli ha stabilito la chiusura nel 2024 con lo spostamento di una parte della produzione nel sito di Bari.
Nell’impianto tra le province di Bologna e Mose sono impiegati 229 dipendenti nella produzione di collettori di aspirazione aria e di pressofusi di alluminio per motori endotermici. All’interno dello stabilimento, come ricorda la delegata della Fim Cisl Grazia Vitiello, il 30% dei 229 dipendenti sono marito e moglie e l’età media è attorno ai 45 anni. In sostanza, è l’allarme della sindacalista, la chiusura vorrebbe dire mettere “fuori dal mondo lavorativo” una buona fetta di operai e impiegati. Anche perché Marelli ha comunicato lo spostamento dei macchinari a Bari, dove proseguirà la produzione delle componenti in plastica senza anticipare nulla sul destino dei lavoratori. Come spesso è avvenuto in casi analoghi, se l’annunciata chiusura nel 2024 dovesse concretizzarsi è possibile un massiccio ricorso a prepensionamenti e trasferimenti che, alla fine, inevitabilmente, lascerà senza lavoro una fetta di dipendenti.
La direzione aziendale ha spiegato che le ragioni della chiusura sono duplici. Da un lato il risultato economico negativo, quest’anno previsto pari a circa 6 milioni di perdita anche a causa dell’aumento del costo dell’energia, nonché della dinamica negativa delle attività legate al motore endotermico che oggi porta a un utilizzo del 45% della capacità produttiva. Questo aggravato dalla scelta di non prevedere alcun investimento per la transizione all’elettrico. Marelli è stata venduta nel 2018 da Fca (ora Stellantis) alla giapponese Calsonic Kansei che, a sua volta, è controllata dal fondo statunitense Kkr protagonista in molti dossier industriali italiani, a cominciare da quello su Tim e la rete. L’operazione ha fruttato ad Fca, controllata dalla famiglia Agnelli-Elkann, 5,8 miliardi di euro. Kkr ha scaricato sulla società i debiti contratti per acquisirla portando il fardello della società oltre gli 8 miliardi. Condizione che drena risorse per investimenti e conversioni all’elettrico.