Al di là di quello che si potrebbe pensare in quest’epoca pazza di esasperata personalizzazione, il giudizio storico-politico non può essere mai personale, ma riguarda sempre le condizioni materiali, culturali, ideologiche nel contesto delle quali i fenomeni si dispiegano. Pur rifuggendo da forme volgari di determinismo e riconoscendo ad alcune figure un ruolo che Hegel avrebbe definito cosmico-storico, tali figure sono pur sempre — per quanto eminenti — incarnazioni dello spirito del tempo.
Giorgio Napolitano, che se n’è andato a quasi cent’anni — era nato a pochissimi anni di distanza dal partito nel quale aveva per lunghissimo tempo militato — e che ha dunque attraversato quasi tutto il Novecento, è stato un individuo cosmico-storico (si parva licet, dal momento che per Hegel un individuo cosmico-storico era Napoleone), incarnando in pieno ciò che la nostra liberal-democrazia è diventata. Difatti il suo ruolo, per quanto importante nella storia del PCI (di cui sarebbe dovuto diventare segretario e di cui non lo divenne perché a prevalere fu Berlinguer) e come uomo delle istituzioni (fu presidente della Camera, ministro degli interni) risulta in realtà rilevante per ciò che ha rappresentato come presidente della Repubblica. Nel 2011 si è infatti trovato a gestire la famigerata crisi dello spread disarcionando Silvio Berlusconi e nominando Mario Monti senatore a vita per poi dargli, praticamente poche ore dopo, l’incarico di presidente del Consiglio.
Ma perché la gestione della crisi da parte di Napolitano è così importante, tanto da essere presa a momento eminente della sua carriera politica e istituzionale? Perché con la nomina di Monti, di fatto Napolitano diede avvio a quella forma di governo del presidente che segnava la definitiva e conclamata crisi del parlamentarismo. Se infatti il regime parlamentare postula la centralità delle Camere, Napolitano con la nomina di Monti ha dato stura definitiva all’idea che il Parlamento possa essere messo in folle per inserire un motore di riserva per ragioni ritenute eccezionali.
Chi pensa che la gestione pandemica sia stato il primo esempio del governo dell’emergenza dovrebbe ricredersi, dal momento che lo spread è stato agitato come uno spauracchio minaccioso forse tanto quanto il Covid, e per tutt’altre ragioni. Napolitano ha esautorato il Parlamento (il quale, a dire il vero, si è volenterosamente consegnato a questo esautoramento) e ha imposto alla forza politica a esso più vicina, il Pd di Bersani (ma non solo a esso), la stagione della ‘responsabilità’. E anche qui: Bersani il responsabile l’ha fatto più che volentieri, dal momento che ciò gli ha consentito di governare senza aver vinto le elezioni, cosa accettabile in un regime parlamentare in cui le maggioranze si fanno in Parlamento (ma qui si aprirebbe un discorso complesso sul rapporto tra regime parlamentare e legge elettorale), meno quando le maggioranze le predispone il presidente della Repubblica.
Cosa voleva dire in concreto il salto di Napolitano? Che il presidente, scavalcando il Parlamento come vero luogo di mediazione della sovranità popolare, si faceva egli stesso garante non di quest’ultima, ma di quella forma di sovranità popolare ammissibile solo nella misura in cui essa coincidesse con il vincolo esterno europeo, ovvero quella che accettasse forme di limitazione della sovranità in ragione di accordi di natura internazionale. E così niente scioglimento delle Camere dopo la caduta di Berlusconi, così come, due anni dopo, lo stesso Napolitano, in ragione di quel vincolo esterno (che poi voleva dire garantire che l’Europa facesse quello che le avevano chiesto Trichet e Mario Draghi nella celebre lettera) si girò dall’altra parte quando deflagrò il boom del M5S.
E fu sempre Napolitano a propiziare il governo Letta e poi il governo Renzi. Su quest’ultimo, Napolitano non avrebbe mai dato fiducia all’uomo di Rignano se questo non avesse garantito al presidente di riuscire a portare a termine il programma che l’Europa ci chiedeva e che era in parte espresso dalla bocciata riforma costituzionale. Renzi è troppo furbo per impiccarsi a un’impresa che gli avrebbe attirato un bel po’ di grane. Fortunatamente, Renzi non è riuscito a portare a termine il compito assegnatogli.
Ma l’Italia con Napolitano è cambiata per sempre. Ne è prova, tra l’altro, la sua inaudita rielezione, precedente che ha poi consentito la rielezione anche del suo successore. Tutto in nome della continuità di un’azione di governo guidata direttamente dal presidente.
Sia chiaro: non si è trattato di un golpe, ma della furba strategia di una politica in enorme debito di credibilità di ritrarsi facendosi eterodirigere da un presidente investito di compiti esorbitanti. Parlerei di Terza Repubblica. Al giorno d’oggi, a quel vincolo esterno europeo si è aggiunto, vivificato, il vincolo Nato. Ma questa è un’altra storia.