Quell'"ancora" che troneggia nei manifesti pubblicitari che tappezza Milano adesso ha il sapore di un già visto, di una collezione dal sapore nostalgico, di un'eleganza troppo comodamente ordinata. Ma il pianto liberatorio di Sabato, al termine del gran finale, ci invita a metterci nei suoi panni. Ci ricorda che ci vuole coraggio e forza, tanta, tantissima forza, per farsi carico della responsabilità di guidare un marchio tale
È stato costretto a cambiare location all’ultimo minuto a causa della doppia allerta meteo arancione prevista per oggi in Lombardia ma alla fine, ironia della sorte, oggi a Milano è caduta (fortunatamente) solo qualche goccia di pioggia. “Sfilata bagnata, sfilata fortunata”, si sarebbe potuto dire. E invece no. In primis perché – appunto – non ha piovuto. E poi perchè ci ha lasciato un po’ l’amaro in bocca. Stiamo parlando di Sabato De Sarno e del suo attesissimo debutto alla direzione creativa di Gucci. Finalmente oggi pomeriggio ha presentato la sua primacollezione per il marchio della doppia G, quella per la Primavera/Estate 24. Il defilé più bramato di tutta la Settimana della Moda milanese, anzi, dell’intero fashion month, perché non solo sancisce un nuovo capitolo per Gucci, ma ce la dice anche lunga anche sullo stato della moda. De Sarno, infatti, lo scorso dicembre è stato chiamato a sostituire il carismatico Alessandro Michele, il direttore creativo del brand fiorentino dal 2015, che ha costruito un Gucci molto massimalista, influenzato da elementi barocchi e rinascimentali e che, dopo sette anni di successi, è stato allontanato a causa del calo di fatturato registrato dall’azienda in Asia.
Gucci – ricordiamo – è infatti di proprietà del Gruppo Kering del magnate francese François-Henri Pinault, che tra i suoi marchi vanta gemme come Saint Laurent, Balenciaga, Alexander McQueen e Bottega Veneta e ora ha iniziato la scalata all’acquisto (da completare entro il 2028) di Valentino. E, guarda caso, De Sarno era proprio il braccio destro di Pierpaolo Piccioli, deus ex machina della casa di moda romana, con un passato prima da Prada e poi da Dolce & Gabbana. Nella sfilata di debutto, tutti i suoi trascorsi accanto ai grandi creativi con cui ha collaborato per 20 anni non trapelano. La collezione è molto Gucci con una palette colori ben definita, che spazia dal bianco al nero, dal grigio al marrone, dal rosso al lime. I completi sartoriali rigorosi si indossano con canotte in maglia sottile e pantaloncini, le camicie con gli shorts, gli abiti sono semplici nella forma bustier o si illuminano grazie alle decorazioni di cristalli, le gonne scelgono forme a matita interrotte da spacchi profondi da abbinare a giacconi outdoor, mentre i cinque tasche over si abbinano a top gioiello. Il logo quando c’è campeggia sulle felpe d’ispirazione streetwear, sulle tute in canvas e sui giacchini antipioggia; mentre sono gli accessori a conquistarsi la scena, dai gioielli bold dorati alle nuove borse Jackie e Bamboo.
Alla vigilia del debutto, gli addetti ai lavori profetizzavano una collezione sensuale come quelle dei tempi di Tom Ford (direttore creativo del marchio dal 1994 al 2004) o algida e lussuosa in pieno stile Frida Giannini: alla fine, hanno avuto tutti un po’ di ragione perché Sabato ha colto e mixato tutte le suggestioni legate all’heritage del brand e le ha fatte sue, declinandole in capi impeccabili, affascinanti, iconici e – soprattutto – perfettamente vendibili. Del resto, non avevamo dubbi che lo stilista, per disegnare la collezione Primavera/Estate 24, si sarebbe tuffato negli archivi della casa di moda fiorentina e ne avrebbe attinto non l’epoca glamour dal 1995 in poi, ma la sua storia più antica partendo proprio da quel 1921 anno in cui Guccio Gucci aprì la prima boutique nel centro di Firenze. Solo che, sotto sotto, speravamo di venir sconfessati. Qualche indizio De Sarno ce lo aveva già svelato sui social a inizio mese, quando il profilo Instagram di Gucci aveva archiviato (e non cancellato, ndr) tutti i precedenti post con la volontà di fare tabula rasa del passato: un’operazione di damnatio memoriae un po’ stantia, già adottata negli anni passati da Hedi Slimane (fresco di nomina da Saint Laurent), da Bottega Veneta (che addirittura si era sbarazzata in un sol colpo di tutti i profili social del marchio della pelle intrecciata) da Balenciaga e recentemente anche da Versace. Poi erano arrivate le immagini della prima campagna pubblicitaria con la sua firma: degli scatti di David Sims che ritraggono la super modella Daria Werbowy nella piscina dello Chateau Marmont, a Los Angeles, con indosso un semplice slip e grandi orecchini della linea di alta gioielleria. Neanche a dirlo, quella foto è divenuta subito virale sui social, con il mondo della moda che iniziava a scatenarsi nelle previsioni sullo stile della nuova era Gucci.
Poi ancora, settimana dopo settimana, ecco che Milano e Parigi si sono ritrovate tappezzate di maxi affissioni in un color rosso borgogna con la scritta “Gucci ancora”. De Sarno nel frattempo aveva svelato che la sfilata non sarebbe più stata al Gucci Hub, il quartier generale del marchio alla periferia est di Milano in cui Michele aveva presentato le sue collezioni in questi anni, ma Brera, anzi le strade intorno all’ Accademia di Belle Arti. Anche qui, l’idea delle modelle che escono dal palazzo e sfilano in strada non è certo una novità: l’ha attuata in primis Marc Jacobs, ma soprattutto è un must di Pierpaolo Piccioli nei suoi ultimi defilé. Infine il libro e le sue prime interviste a Corriere e Wwd. Una colossale (ma non innovativa) strategia di marketing che solo una grande azienda, gemma di un immenso gruppo del lusso potrebbe sostenere.
Alla fine, a meno di ventiquattr’ore dalla sfilata, Gucci ha dovuto abbandonare la scelta di Brera e ripiegare proprio sul Gucci Hub, che per l’occasione si è trasformato in un cubo nero illuminato da luci rosse. Rosse come il colore simbolo del nuovo corso di Gucci: quel rosso tendente al porpora, quasi un rosso pompeiano, (Pompei non è poi così lontana da Cicciano, paese in cui è nato De Sarno) che è andato a sostituire quel verde anticheggiante scelto da Michele, operazione però già vista precedentemente sulla passerella di Valentino quando Pierpaolo Piccioli ha spazzato via il rosso iconico emblema del fondatore della maison, Valentino Garavani, e l’ha sostituito con il rosa che ora porta il suo nome.
Ed è proprio il nuovo rosso di Gucci a caratterizzare le prime uscite in passerella, sotto forma di giacche in pelle, sull’abito a sottoveste dove il vinile si abbina al pizzo lingerie (non vi ricorda un certo Tom Ford?), sui mocassini dalle zeppe altissime e infine sulle borse Bamboo e Jackie. Qualcuno l’ha ribattezzato “Rosso Gucci Ancora”. E qui occorre fare un passo indietro. Sì, perché la parola “Ancora” è diventata negli ultimi giorni trend topic sul web. Se giornalisti e influencer sui social hanno tirato in ballo Mina e la sua canzone “Ancora, Ancora, Ancora“ (non andando poi così tanto fuori strada), De Sarno ha voluto chiarire qualche giorno fa dal suo profilo Instagram il vero significato, spiegando che si riferisce al fatto che la sua nomina da Gucci è per lui un‘occasione per innamorarsi “ancora” della moda.
Le parole, del resto, sono importanti per il nuovo direttore creativo di Gucci che ha scelto Stefano Collicelli Cagol, direttore del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, per collaborare al nuovo progetto Gucci Prospettive: un volume di 130 pagine, che diventa un viaggio senza sosta alla scoperta di una Milano d’altri tempi, perfetto specchio della Gucci che verrà. A Colicelli Cagol è stato chiesto di interpretare la visione dello stilista allestendo un racconto per immagini capace di legare indissolubilmente arte, moda e Milano. “Una storia che nasce dalla gioia di vivere” ci fa sapere De Sarno sempre da Instagram, che costruisce relazioni tra fotografie d’epoca, ritratti d’artisti, frammenti di opere e parole, “parole nelle opere, parole nelle foto, parole negli spazi, solo parole”. E anche qui De Sarno cita Mina e la sua canzone Parole Parole. Altro prezioso indizio.
Dai social alla carta stampata il passo è breve: De Sarno non si risparmia neanche durante le interviste come quella rilasciata al Corriere della Sera poche ore prima di sfilare, in cui si racconta senza filtri e in cui traspare il suo lato più fragile ed emotivo: quello che rifugge il glamour per concentrarsi sulle sue passioni come l’amore per il marito, l’arte e i vestiti. Si dichiara libero dalle strategie aziendali perché tutto quello che ha presentato in passerella non è stato creato seguendo logiche di marketing, ma rappresenta quello che ama lui di Gucci. E aggiunge che non ha mai pensato di fare il direttore creativo perché a lui piace lo spirito di squadra, la collaborazione, lo scambio di idee. Ne emerge un De Sarno sognatore e profondamente umano, libero e felice.
Ora però, dopo aver visto la sfilata e aver messo insieme tutti i pezzi di questo intricato puzzle, possiamo affermare che di questa collezione se ne parlerà molto nei prossimi mesi a venire non tanto per i vestiti e gli accessori, ma per l’insegnamento che possiamo trarne: non bastano interviste e post per raccontare il nuovo corso dei marchi e creare aspettative poi disilluse. Il vero banco di prova è e resta comunque la sfilata. E questa di Gucci ci ha fatto provare le stesse sensazioni di quando si scarta un regalo impacchettato benissimo ma che, una volta scartato, si rivela deludente. Ci sarebbe piaciuto trovare il sogno, il brivido, la magia, l’emozione della sorpresa. Qualcosa di cui parlare, da citare e da ricordare nei mesi a venire. E invece abbiamo assistito ad un compito perfetto. Ad un ineccepibile esercizio di stile, come se De Sarno avesse creato in punta di penna, con la paura di sbagliare. No, non ha sbagliato. Ha fatto esattamente ciò che era stato chiamato a fare. Sprazzi del suo estro sono emersi, certo, di tanto in tanto. Qua e là, tra un cappotto sfrangiato verde lime e un’anonima felpa grigia posta a contrasto di una pencil skirt. E quell'”ancora”, adesso, ha il sapore di un già visto, di una collezione dal sapore nostalgico, di un’eleganza troppo comodamente ordinata. Ma il pianto liberatorio di Sabato, al termine del gran finale, ci invita a metterci nei suoi panni, ci ricorda che ci vuole coraggio e forza, tanta, tantissima forza, per farsi carico della responsabilità di guidare un marchio tale per cui un fatturato da 9,62 miliardi è ritenuto deludente. E già non vediamo l’ora della sua prossima sfilata.