A volte si afferma che la scienza dipende dal contesto culturale nel quale si sviluppa; che l’atto di scoprire e conoscere non sia l’azione del soggetto conoscente su un oggetto inerte, ma piuttosto una modalità dell’interazione tra soggetto ed oggetto, tale per cui ogni conoscenza sarebbe (anche) soggettiva.
Questa affermazione, che è stata spesso citata contro le misure di contenimento dell’epidemia e ha avuto quindi in tempi recenti una risonanza molto più estesa che in passato, è imprecisa e si regge sulla sua stessa imprecisione; a seconda di come la si intende può essere vera o falsa. È spesso usata per relativizzare e, in fondo negare, ipotesi scientifiche sgradite, ma molto raramente viene sostenuta con esempi pertinenti, che potrebbero chiarirne il senso, e rimane quindi, di solito, una elucubrazione teorica priva di riscontri.
Proverò a illustrarla con un esempio tratto dalla storia della biologia; ritengo che sia preferibile rispetto a possibili esempi tratti dalla teoria della relatività o dalla fisica quantistica che sono estranee alle mie competenze, e che sono capite da pochissimi e fraintese da moltissimi.
La generazione spontanea era fino al ‘700 un problema classico della biologia. Era noto a tutti che nel materiale organico in decomposizione apparivano insetti, larve, e vermi; con la scoperta del microscopio si aggiunsero i microorganismi. Questo evento era spiegato con due ipotesi alternative: la generazione spontanea di questi organismi, o la contaminazione del materiale organico con semi, uova o altre forme embrionali prodotte da organismi preesistenti. Alcuni valenti naturalisti come il francese Buffon o l’inglese Needham favorivano l’ipotesi della generazione spontanea, mentre gli italiani Redi e Spallanzani erano più propensi all’ipotesi della contaminazione.
John Needham osservò la contaminazione di microorganismi in materiale organico sottoposto a bollitura e conservato in fiale tappate; ne concluse che per gli organismi di dimensione microscopica la generazione spontanea era possibile. Lazzaro Spallanzani ripetè gli esperimenti di Needham agggiungendo due variazioni: anziché tappare le sue fiale o bottiglie contenenti il materiale organico, ne fuse il collo sulla fiamma sigillando vetro con vetro; inoltre sterilizzò le fiale già riempite e sigillate immergendole a lungo in una pentola contenente acqua in ebollizione. Nelle fiale, a cui segava il collo dopo vari giorni di incubazione, non si osservavano microorganismi.
Spallanzani concluse nel suo Saggio sulla Generazione, del 1765, che la generazione spontanea era impossibile, e che i risultati di Needham erano dovuti al fatto che il tappo non è una barriera sufficiente contro la contaminazione da microorganismi. Pasteur, che conosceva gli esperimenti di Spallanzani, non ebbe difficoltà a ripeterli e confermarli un secolo dopo.
Il contesto culturale e le implicazioni dell’ipotesi della generazione spontanea sono notevoli: ammetterla è anti-creazionista, mentre negarla, nel ‘700, suggeriva fortemente che all’origine della vita vi fosse un atto creativo esterno: dimostrare l’impossibilità della generazione spontanea era quasi una prova dell’esistenza di Dio. Non consideriamo, ovviamente, le ipotesi moderne, anti-creazioniste sull’origine della vita, perché formulate sulla base di nozioni di molto posteriori al ‘700. L’ipotesi della generazione spontanea trovava facile supporto nel clima culturale dell’illuminismo francese o dell’empirismo inglese, entrambi tendenzialmente atei, mentre la sua negazione era preferita in Italia, paese profondamente cattolico; Spallanzani stesso era un sacerdote.
Le posizioni anglo-francese e italiana sul tema della generazione spontanea erano quindi coerenti con i rispettivi ambienti culturali. C’erano, ovviamente, eccezioni: ad esempio William Harvey, inglese, esprimeva dubbi sulla generazione spontanea; ma in linea di massima sembra ragionevole sostenere che l’ambiente culturale non è neutro rispetto alla formulazione dell’ipotesi. Una volta però che l’ipotesi è stata formulata, all’interno dell’ambiente a lei più favorevole, se ne rende autonoma e il suo banco di prova diventa la capacità di predire il risultato dell’esperimento. Infatti l’essere culturalmente un erede dell’illuminismo francese non impedì a Pasteur di ripetere e confermare gli esperimenti del prete italiano Spallanzani, che confutavano le argomentazioni dell’illuminista francese Buffon.
Come qualunque prodotto dell’ingegno umano, l’ipotesi scientifica dipende dall’intuizione e dalla cultura del suo creatore nel momento in cui viene prodotta, ma ne diventa poi indipendente, come una casa che deve la sua esistenza al progetto dell’ingegnere e al lavoro del muratore, ma poi continua ad esistere in assenza di questi e gli sopravvive. Spallanzani credette che la vita fosse stata creata ed ideò esperimenti per dimostrare l’impossibilità della generazione spontanea; oggi non crediamo più, come lui, alla creazione, ma non abbiamo dubbi sui suoi risultati sperimentali.
In conclusione: una scoperta scientifica dipende o non dipende dal contesto culturale nel quale viene fatta? La scoperta viene fatta non appena le condizioni la rendono possibile; e tra le condizioni rientrano fattori tecnici e fattori culturali. Certamente se la scoperta non l’avesse fatta Spallanzani, l’avrebbe fatta Pasteur, ma un secolo dopo. Spallanzani ebbe il vantaggio di un contesto culturale che lo spingeva, per ragioni sbagliate, nella direzione giusta. Se l’intuizione creativa che porta alla scoperta dipende dal contesto culturale, il suo sviluppo successivo ne diventa indipendente e dipende invece dal banco di prova dell’esperimento, che è ripetibile anche in contesti culturali diversi da quello di origine, e rende la conoscenza scientifica oggettiva e transculturale.