Che la cultura della menzogna tra i militari e i politici russi sia stata per il Cremlino il principale ostacolo nella guerra in Ucraina lo si è capito fin dall’inizio. Non stiamo parlando solo delle menzogne propinate agli stranieri, come quando tra metà gennaio e metà febbraio 2022 erano apparsi sulla stampa di mezzo mondo “studi” di analisti geopolitici la cui conclusione era sempre e per forza la sconfitta rapida e totale dell’Ucraina e la necessità per l’Occidente di sottomettersi al nuovo ordine. Il problema è anche un altro: è l’intera catena di comando politico-militare che mente sapendo di farlo e nasconde in modo sistematico la verità, al punto che si finisce per dubitare che i vertici stessi del Paese abbiano un quadro realistico della situazione.
Ora a dirlo è una fonte che Mosca non può tacciare di essere filo-occidentale, il tenente generale Andrei Gurulev, ex comandante del distretto militare meridionale russo e ora parlamentare filogovernativo. Gurulev sostiene che i rapporti fuorvianti hanno portato a cattive decisioni a tutti i livelli di comando, con il risultato che i soldati russi l’anno scorso hanno perso Kiev, Kharkiv e Kherson e quest’anno si stanno ritirando in diverse parti del fronte. Insomma, Mosca può costringere i suoi soldati a scavare trincee e a costruire fortificazioni, ma non a dire la verità. A dirlo non è una mammoletta, ma un ex militare che ha invitato più volte Putin a instaurare un regime del terrore come Stalin.
Non è da oggi e non è solo in Russia che i leader preferiscono circondarsi di yes man invece che di voci critiche: anche in Occidente i militari seguono a volte logiche (per gli esterni) contorte e fuori dal tempo. Ma quando alla naturale tendenza dei militari a tacere si aggiungono, in Russia, un’etica che premia chi sa sopravvivere e un regime autocratico che considera ogni voce critica un dissenso da mettere a tacere, ecco allora che il blackout è totale.
I russi di oggi lo hanno imparato bene dai sovietici, una storia che sembra una barzelletta aiuta a capire meglio. Ai tempi dell’Unione Sovietica il sindaco di un villaggio riportò al commissario del suo oblast che in media nelle fattorie collettive del suo territorio ogni famiglia aveva due bovini. Così, per farsi belli, i dirigenti dell’oblast trasmisero ai loro superiori l’informazione che le mucche per ogni nucleo familiare erano quattro. I loro superiori, nel dubbio che quattro animali fossero pochi, scrissero nel loro rapporto che le vacche erano otto e lo trasmisero al ministero dell’Agricoltura. Il ministro, stanco di presentare dati fallimentari, allargò le cifre: le mucche disponibili divennero sedici per ogni famiglia. A leggere i dati il ministro della Difesa e quello delle Finanze arrivarono alla conclusione che dato che nelle fattorie collettive ogni famiglia possedeva sedici bovini, almeno due avrebbero potuto essere requisiti. Insomma, nei regimi autocratici, dove i sottoposti sono terrorizzati dai chi sta in alto e dove chi sta sotto quasi sempre paga se segnala gli errori a chi lo dirige, la catena di comando finisce sempre per trasmettere menzogne e spesso chi dirige il Paese cade in questo circolo vizioso imposto dal suo stesso modus operandi.
Della tendenza a punire chi mette in evidenza i problemi si era occupato lo stesso Gurulev tre mesi fa quando aveva fatto conoscere lo sfogo del generale Ivan Popov, secondo il quale la leadership militare era irritata dal parlare con franchezza delle sfide e delle carenze delle forze armate. Per questo, il suo discorso è piaciuto a unna miriade di blogger ultranazionalisti concordi nel rilanciare la sua denuncia che le menzogne si sono diffuse nell’esercito come metastasi e che probabilmente nemmeno i vertici della Russia hanno più veramente il polso della situazione. Per esempio, Voenkor Kotenok afferma che “si è arrivati al punto che i sottufficiali e gli ufficiali più bassi in grado, temendo reazioni negative e rimproveri, hanno paura di riferire sulla reale situazione nelle formazioni, unità e singole unità, sull’arbitrarietà e la follia dei singoli leader militari che mandano le persone al massacro senza copertura, senza fornire tutto ciò di cui hanno bisogno, comprese le munizioni. Hanno paura di riferire la verità ai generali!”.
Incrociando i dati a disposizione e le dichiarazioni fornite dalle fonti ufficiali, è importante ricordare che anche da parte ucraina non c’è la presentazione delle difficoltà nella loro interezza. Tuttavia, la tendenza alla menzogna appare meno marcata. Per intendersi, a luglio abbiamo avuto contezza delle difficoltà ucraine sul fronte settentrionale, dalle parti di Kupiansk, da Kiev prima che da Mosca. D’altronde, Kiev ha interesse a mobilitare la sua popolazione e i Paesi amici e ha certe volte presentato la minaccia russa più grande di quello che era, come nel caso di Kupiansk ma anche della fallita “offensiva d’inverno” nell’Ucraina meridionale.
Dal lato di Mosca, invece, le cose sono di interpretazione molto difficile anche per un analista esperto: c’è una marcatissima tendenza a rivendicare successi che poi non trovano conferme sul campo, come gli HIMARS annientati di cui non esistono prove e che a conti fatti sarebbero più di quelli inviati da Washington o il carro armato occidentale distrutto subito a giugno, che alla fine si rivelò essere un mezzo agricolo. Questo atteggiamento irrita non poco gli stessi nazionalisti russi, perché impedisce una comprensione dell’andamento della guerra e costringe chi si vuol informare ad affidarsi a chi sembra dire il vero: prima era Prigozhin, ora Gurulev.