Cosa nostra? “La conosco dai giornali’’. Omicidi, droga, estorsioni? “Nulla di tutto ciò’’. Provenzano? ‘’L’ho conosciuto dalla tv. Quando si è entrambi latitanti arriva un dato momento che ci dobbiamo incontrare’’. E la pistola trovata nel covo di Campobello? “L’arma è mia, me l’hanno portata dal Belgio e la punzonatura è stata fatta così bene che voi non potrete risalire a niente, c’era pure il cane limato…’’. Non solo, “c’erano anche altre cose che non spuntano da nessuna parte’’. Se ho commesso reati? “Nessuno di quelli di cui sono accusato’’. E quindi si reputa innocente? “Non voglio dire questo, sarebbe assurdo’’. Con l’avvertimento finale: “a voi dico la mia verità’’, ma “non mi farò mai pentito’’.
E la verità di Matteo Messina Denaro, almeno quella dell’unico verbale reso noto, redatto il 13 febbraio scorso nel carcere dell’Aquila alla presenza del procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e dell’aggiunto Paolo Guido, che hanno interrogato il boss davanti al gip Alfredo Montalto. È un mix di negazioni radicali, di ammissioni dell’ovvio e molte allusioni che restituiscono il profilo di un boss moderno, abituato alla navigazione bordeggiante tra affari e amicizie importanti negli anni seguenti alla trattativa Stato-mafia, con radici subculturali saldissime nel familismo amorale che ha garantito, insieme alla violenza e alle relazioni “esterne’’, la sopravvivenza di Cosa nostra da prima dell’unità d’Italia. “Non è stato utile ma interessante’’, ha detto nello stesso verbale De Lucia. Un testamento informativo per nulla omertoso (il boss parla a lungo, spesso spontaneamente, senza attendere le domande dei magistrati) ma del tutto indifferente alle parole dell’aggiunto Guido: “Abbiamo bisogno di ricostruire i fatti accaduti in trent’anni, a noi interessano quelli’’. Una richiesta che si scontra su una barriera di negazioni: “Io, durante la latitanza, non ho mai avuto rapporti con appartenenti alle istituzioni, completamente”.
Messina Denaro sa nulla delle “pitture di muri’’ di cui parla Guido con chiaro riferimento ai misteri del covo di Totò Riina, e non vuole rivelare i nomi degli amici che lo hanno protetto durante i quindici anni trascorsi all’estero: “Non lo dico dove ero perché c’è gente che mi ha aiutato, ci sono persone che hanno cose mie, e io non ho mai infamato nessuno, e morirò senza infamare nessuno, questo è Messina Denaro”. Poi però si lascia sfuggire che a Ostia aveva acquistato una barca, “che non è stata individuata e che ho alienato’’ per aggiungere, subito dopo: “Io me ne andavo in auto e poi ritornavo in auto. Quindi si figuri se non conosco Roma o che non frequentassi Roma, se poi si aggiunge che io ho le mie frequentazioni romane… non sono creduto ovviamente, ma io dico la mia verità”. Allusioni che richiamano alla memoria gli anonimi inviati in Procura dieci anni fa che annunciavano un attentato contro il pm Nino Di Matteo, deciso “da amici romani di Matteo’’, un contesto di patti e ricatti evocato anche dal pentito Nino Giuffrè che lo accusa di possedere l’archivio segreto di Riina, che lo riteneva unico destinatario della continuità corleonese stragista.
Ma di carte nascoste il boss non parla, se non per ricordare ai magistrati che sul libro bianco destinato alla figlia c’è il numero 3, a testimonianza di altri due volumi di appunti che non sono stati trovati, “nascosti in luogo sicuro’’. Dichiarazioni interrotte nel verbale da un omissis, a conferma dei momenti in cui l’interrogatorio è andato al di là di un semplice colloquio per trasformarsi in un potenziale spunto investigativo. Nel suo libro “La cattura’’ (Feltrinelli), scritto con il giornalista Salvo Palazzolo, il procuratore De Lucia si sofferma sul passaggio il boss trapanese prende le distanze dalla strage di via dei Georgofili a Firenze: “Se andavo io, con le stesse finalità (prendersela con i beni dello Stato, ndr) non sarebbe morto nessuno. Il problema è che è stata usata gente che vale niente’’: “A chi parla adesso?’’, si chiede il procuratore, e la stessa domanda se la pone a proposito un’altra frase di MMD: “Ci sono tante cose della mia vita che non si possono spiegare, e altre che non si devono spiegare. Soprattutto quando dare una spiegazione significa dare troppa importanza all’interlocutore”. “Di chi sta parlando?”, si chiede di nuovo il procuratore di Palermo.