Cinema

Anna Magnani, 50 anni dalla morte dell’attrice immensa. Ci sono sue “eredi” nel cinema d’oggi? La risposa è e sarà sempre una

Magnani, di cui in queste ore ricorre il cinquantennale della morte (26 settembre 1973) “viveva” le parti che le venivano assegnate. Come se un tuono all’improvviso avesse animato un corpo ribollente, ipercinetico, fiero

di Davide Turrini

“Saluto la fraternità degli uomini, il mondo delle arti e Anna Magnani”. Perfino Yuri Gagarin lassù nello spazio dal suo Vostok omaggiò nell’aprile del 1961 l’attrice italiana che nel primo dopoguerra irradiò la luce della sua grintosa, popolana e sofisticata icona attoriale nel mondo. Un Oscar come miglior attrice (solo la Loren in Italia come lei) per La rosa tatuata (non un capolavoro) e una manciata di titoli e personaggi memorabili in nemmeno vent’anni di prolungato climax professionale: la Pina di Roma città aperta; la Maddalena Cecconi di Bellissima; l’Angelina de L’onorevole Angelina; Camilla de La carrozza d’oro; Roma Garofolo in Mamma Roma. Come ha scritto Emiliano Morreale “Anna Magnani è stata per il cinema quasi quel che Eleonora Duse fu per il teatro. Un simbolo dell’Italia, certo, ma anche il simbolo stesso del mestiere d’attrice”. Già perché Magnani, di cui in queste ore ricorre il cinquantennale della morte (26 settembre 1973) “viveva” le parti che le venivano assegnate. Come se un tuono all’improvviso avesse animato un corpo ribollente, ipercinetico, fiero. Magnani, anche quando le particine erano piccine, quando il film era francamente minore, non ha mai abdicato all’orgoglio spiccio di essere taluna o tal’altra in tutta la sua sacrosanta vibrante integrità di personaggio.

Ancora Morreale, da un bel saggio sull’ultimo catalogo del Cinema Ritrovato 2023: “la posa simbolica in cui la si può fissare è quella di una donna tra la folla, trattenuta mentre si rivolge dolorosamente contro le ingiustizie della storia”. Nannarella del resto non ha mai fatto segreto del proprio carattere energico e fumantino, come di una generosità e vicinanza verso i più deboli e bisognosi. In tanti ricorderanno il suo amore per i gatti e i cani con il celebre servizio fotografico del ’61 che la ritraeva nella sua villa del Circeo in compagnia di enormi quadrupedi, otto gatti e tartarughe, tutti liberi di scorrazzare dove volevano. Quando girò Vulcano a Salina e Lipari nelle Eolie, il regista William Dieterlie si lamentò di un cane che abbaiava in continuazione e rovinava le riprese. Dispotico come nessuno Dieterlie ordinò di agguantare il cane e trasferirlo lontano. Quando la Magnani lo seppe andò su tutte le furie e volle che la troupe lo andasse a riprendere.

Il fiero Fidulin rimase sui suoi piedi per il resto delle riprese e visse il resto della sua vita proprio nella villa del Circeo. Sempre con Totò, altro adoratore e salvatore di cani, sul set di Risate di gioia (1960) salvò un gatto rischiando la pelle. Racconta Franca Faldini: “Se Totò proteggeva i cani randagi, Anna aveva la fissa dei gatti. Così ne vide uno che veniva maltrattato da alcuni ragazzini e immediatamente si precipitò urlando come uno dei personaggi dei suoi film, mentre nella vita parlava sempre da signora, aveva persino il birignao: Brutti figli di mignotta, la volete piantà!. Beh, uscirono fuori i genitori che volevano menarla. Totò, che non vedeva niente, si sentì in dovere di spalleggiarla, e mancò poco ne nascesse una zuffa. Dovettero accorrere quelli della troupe, e alla fine la Magnani se ne andò tutta fiera con il povero gatto in braccio”.

Un’ambivalenza caratteriale apparente, quella della Magnani, che Fellini apostrofò in Roma come “lupa e vestale, aristocratica e stracciona, tetra e buffonesca”; ma che, come ha ricordato di recente la nipote Olivia, sarebbe “un errore costringerla nello stereotipo di Nannarella, la popolana scarmigliata e caciarona (…) lei era colta e raffinata e tutt’altro che affidata all’improvvisazione: quando studiava un personaggio si chiudeva in casa per mesi, facendo un lavoro di cesellatura maniacale”. Insomma, gira e rigira sempre lì torniamo. La Magnani nel suo naturalismo eccessivo, nella sua esuberante chiaroscuralità, fu attrice immensa, irripetibile, anzi in una parola sola, con la maiuscola: Arte. E anche per questo, dopo averla incensata, ricordata, amata e lucidata, la domanda che corre sulla bocca di tutti, rimane sempre la stessa: eredi o epigone ne esistono? La risposta è, e rimarrà per sempre, un secco “no”.

Sia perché il linguaggio e la funzione del cinema, quindi del recitare e dello status dell’attrice/ore, sono terribilmente e drasticamente mutati dall’epoca Magnani (cioè tra anni ’30 e ‘60); sia perché quell’idea di personaggio “scarmigliato e caciarone”, tracciato sinusoidale tra alto e basso della società (riguardate Bellissima, per dirne uno, e ne capirete comunque la pressante attualità) è diventato spesso stigma di rozzezza e volgarità sostituito nel concentrarsi steoritipizzato di parti e particine di donne illuminate e borghesi al tinello e in lacrime. Così come tante attuali sue “colleghe” non potrebbero mai lontanamente avvicinarsi alla sua corsa e alla sua caduta in Roma Città Aperta perché tutto apparirebbe incredibilmente falso; così come Meryl Streep l’ha copiata per anni (diciamo tra i settanta e gli ottanta) per poi finire a interpretare figure truffaldine come la Thatcher; nessuno potrà mai avere la forza evocativa e la spontaneità d’animo di quella Magnani ombra sul muro e improvviso primo piano notturno, rivolta al Fellini regista che la interpella con voce off in Roma: “A Federì ma va a dormì va!”.

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