Teresa Rei, 38 anni, deve il suo nome a un giudice e a una santa, la sua è la storia di una figlia di NN. È stata adottata da piccolissima e, figlia di NN – ovvero di una donna che ha partorito scegliendo di restare anonima – non sa nulla della sua famiglia d’origine. Era molto giovane quando, per la prima volta, ha provato a cercarla e si è subito scontrata con la legge 184 del ‘83 – anche detta legge dei cento anni – che vieta alle persone date in adozione in anonimato di risalire alle loro origini biologiche. E ora, grazie al ritorno dagli Stati Uniti di Alessandro, l’amico di cui è sempre stata innamorata e che per anni l’ha aiutata nella sua ricerca, potrebbe ricomporre il puzzle della sua esistenza. E soprattutto affrontare il loro rapporto rimasto in sospeso da troppo tempo.

La storia di Teresa è l’occasione per parlare di tematiche che continuano a riempire le nostre pagine di cronaca. La maternità e la sua negazione, in tutte le sue sfaccettature. Il diritto di una donna che decide di mettere al mondo un figlio lasciandolo alle cure di una struttura e di restare anonima. Le culle termiche e le culle per la vita. Sembrano storie d’altri tempi, ma sono storie attuali. Ancora oggi in Italia il tema adozioni è molto discusso. Il Comitato nazionale per il Diritto alla conoscenza delle origini biologiche dal 2008 si adopera per portare all’attenzione del Parlamento il diritto dei figli nati da parto anonimo, affinché possano conoscere l’identità della propria madre biologica, previo interpello e consenso di quest’ultima, nel totale rispetto della sua privacy.

Sara Lorenzini è scrittrice, sceneggiatrice e autrice televisiva. Il suo ultimo romanzo, 45 metri quadri. La misura di un sogno, ha vinto il Premio Zocca Giovani. Pubblichiamo un estratto da “La ballata delle figlie” (Castelvecchi Editore).

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I primi tempi non sono semplici per nessuno dei tre. C’è una famiglia da inventare. I baci, i caratteri, gli umori. E intanto Teresa impara svelta, con una mamma dedita a lei soltanto. Trova i nomi di tutte le cose, e si diverte a inventarne di nuovi, vocaboli che arricchiscono il lessico famigliare, diventano la sua lingua madre. Carla avverte la responsabilità della eredità linguistica. Senza DNA, ma solo grazie alle parole, capisce di poter dare qualcosa di sé a quella figlia, riesce a farla sua, e intanto impara a prendersi cura della sua cascata di riccioli neri, intricati e ribelli, quasi stranieri, che rimarranno per lei sempre un mistero. Poi, un giorno, quando Teresa ha circa quattro anni, Maurizio muore. Succede una sera di marzo. (…) Nessuno paga per quel terribile incidente. La chiamano tragica fatalità, Carla e la bambina restano sole. Maurizio diventa un padre da immaginare e Teresa, che ancora non sa di essere stata adottata, cresce persuasa di somigliargli fisicamente, di aver il suo stesso naso, la forma delle labbra o il taglio degli occhi. Chiede spesso a sua madre di parlarle di lui. Che macchina aveva? Una Renault rossa. Collezionava cravatte, quante ne aveva? Cento. Davvero? E che facevate insieme, quando io non c’ero? Che facevate da fidanzati? Andavamo al cinema e a prendere il gelato. Carla risponde, fornisce dettagli concreti, riferimenti reali, intorno ai quali Teresa fa muovere Maurizio in una dimensione fisica e terrena, tanto che scrivendo di lui le sembra quasi di riuscire a vederlo. Gli scrive lunghe lettere dentro un diario segreto, di quelli chiusi con il lucchetto. Sono tutto ciò che gli resta di lui, una fantasia. Tante volte, da adulta, si è chiesta come sia possibile sentire la mancanza di qualcosa che non abbiamo mai avuto, di qualcuno che non abbiamo mai conosciuto.

Ha sedici anni quando scopre di essere stata adottata e la rabbia travolge tutto e tutti. Porta via il senso di ogni cosa, presenze, assenze, ricordi, amori, come un’alluvione che trascina una città intera. Maurizio non è mai stato suo padre. E Carla allora chi è? Tutta la sua vita le sembra una farsa. Prende quel diario e lo scaraventa contro il muro. (…)

«Ti piace scrivere? Allora scrivi. Scrivi tutto quello che non dici, che vorresti gridare se avessi di nuovo una voce. Fai parlare i tuoi personaggi. Come quando scrivevi a tuo padre sul diario che hai buttato…» continua Valeria, che è poco più grande di lei, mentre passeggiano verso la Torre di Ligny, circondate dall’azzurro spumeggiante dei due mari che si incontrano. Teresa la ascolta. La scrittura è sempre stata la sua cura, un rifugio, il suo posto nel mondo. È giovane e sogna di diventare una poetessa dark, una scrittrice maledetta, ma pensa di non avere la stoffa. Firma i suoi primi versi con una sigla: NN. È la sigla con cui viene indicata la donna che partorisce scegliendo di restare anonima. Un rebus, il suo nome. Fantastica sull’altra madre, quella che l’ha messa al mondo. La odia, le fa schifo, la adora, la desidera. È solo un’idea o una persona in carne e ossa, una che da qualche parte esiste? Un buco nel cuore da riempire ogni volta con un sentimento diverso. Un tormento, una sfida, il sogno di una donna senza volto eppure dalle infinite facce. NN. Un giorno, con un pennarello nero, si disegna quelle due lettere sul braccio. Quando Carla se ne accorge, urla, pensa che sia un tatuaggio vero, inciso sulla pelle.

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