di Susanna Stacchini

Medici e infermieri ridotti a scudi umani di una sanità pubblica alla deriva. Ospedali e in particolare i pronto soccorso, trasformati in vere e proprie trincee, dove, gli operatori mettono a repentaglio la propria incolumità, i pazienti la propria vita e i familiari i propri nervi. Ospedali e distretti sociosanitari, presidiati da guardie giurate e tappezzati di locandine, attraverso le quali, si invitano le persone a non aggredire il personale sanitario, fenomeno tanto grave quanto diffuso, assolutamente non derubricabile a singoli fatti di cronaca. La politica dovrebbe interrogarsi seriamente sulla genesi di tante aggressioni.

Invece anche in Toscana, la narrazione ufficiale racconta una realtà di pregio ed eccellenze, nonostante si combatta quotidianamente con una sanità pubblica allo sfascio. La salute, passando dalla prevenzione alla cura, fino alla riabilitazione, non sembra più un valore collettivo da salvaguardare oltremodo. La gente ha capito, “se pur per deduzione”, che la tutela della propria salute, dipende dalla propria capacità economica, costretta com’è, a rivolgersi sempre più al privato. La sanità pubblica viene smantellata giorno dopo giorno, un’erosione continua, un vero e proprio stillicidio. Dopo un’agonia che si protrae da decenni, la sanità è arrivata al fine vita e pertanto soggetta esclusivamente a cure palliative.

Ormai il sistema sanitario pubblico, si contraddistingue per le imbarazzanti liste di attesa per visite specialistiche ed esami strumentali. Per le interminabili soste nei pronto soccorso, in attesa di un posto letto, attese che spesso sfociano in una “sorta di maltrattamenti”, considerato che i pronti soccorso, per definizione non hanno servizio alberghiero e non sono organizzati per fornire un’assistenza di lungo periodo. Così per le persone, soprattutto se anziani fragili, sopravvivere al pronto soccorso, diventa un’esperienza davvero eroica. E non va meglio dopo. Conquistato il posto letto, iniziano le insidie legate alla degenza ospedaliera, anch’essa foriera di rischi, fino al momento della dimissione, passaggio altrettanto critico.

Un sistema sanitario colabrodo, noto a tutti, ma ignorato da chi di dovere. Inarrestabile riduzione di posti letto. Mancanza di medici e infermieri, turni massacranti, pochissimo tempo da dedicare direttamente al malato che spesso viene confinato a letto. Nessuno che ascolta nessun, con tutti i rischi connessi. Durata della degenza imposta da protocolli e procedure, a dispetto della clinica, salvo rarissime eccezioni. Né un giorno di più, ne di meno. Un territorio altrettanto sguarnito di Infermieri, oss e Medici, incapace di un’efficace presa in carico domiciliare. Insomma, il perfetto terreno di coltura per il noto meccanismo delle porte girevoli. Dimissione ospedaliera oggi e rientro domani.

La sanità pubblica non può essere gestita come un’azienda privata. Non può fare profitti. La catena di montaggio che per definizione prevede la “minutizzazione delle prestazioni”, non può essere applicata a Medici e Infermieri che devono tener conto delle molteplici variabili, legate alla persona malata. Una sanità in mano alla politica, che detta regole ed obiettivi di budget, non può che essere fallimentare. Una sanità che premia operatori, semplicemente perché funzionali al sistema, a discapito di menti illuminate, è una sanità incapace di promuovere salute. Governare il sistema sanitario pubblico implica possesso di competenze e lungimiranza.

Il risparmio di oggi, se concepito con approssimazione, si trasformerà di lì a breve, in uno spreco, ben più consistente. Se a causa del ridotto personale, un anziano staziona, prima barellato per 24/48 ore in pronto soccorso, poi nel letto di corsia, con altissima probabilità, svilupperà altre patologie. Ulcere da decubito, insorgenza o aggravamento di patologie respiratorie e circolatorie.

Allora, viene da chiedersi, davvero una gestione tanto sciagurata ha messo in salvo il bilancio?

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