di Savino Balzano
Lunedì sera, ai microfoni di Otto e mezzo, Massimo Cacciari ha immaginato una scena piuttosto suggestiva: trasmettere in Parlamento, in occasione dei funerali laici di Giorgio Napolitano, il suo famoso discorso del 22 aprile 2013, quello col quale rimproverava duramente alla classe politica le incapacità che essa non aveva saputo colmare. In particolare, il filosofo ha ricordato come le riforme tanto auspicate da Napolitano non siano state realizzate e come questo incida nello stato di arretratezza nel quale ancora oggi l’Italia versa.
Credo che l’analisi di Cacciari sia profondamente sbagliata e se ci pensate sono le stesse parole di Napolitano, proprio quelle pronunciate quel 22 aprile di dieci anni fa, a dimostrarlo: «il Parlamento ha di recente deliberato addirittura all’unanimità il suo contributo su provvedimenti urgenti – che al Governo Monti, ancora in carica, toccava adottare e che esso ha adottato – nel solco di uno sforzo di politica economica, finanziaria ed europea che meriterà un giudizio certamente più equanime, quanto più si allontanerà il clima dello scontro elettorale e si trarrà il bilancio del ruolo acquisito nel corso del 2012 in seno all’Unione Europea».
Le riforme tanto auspicate dall’allora Presidente della Repubblica erano quelle di Monti e Fornero, le stesse che l’Unione Europea ordinava e che un governo politico mai avrebbe potuto realizzare. Solo un governo tecnico, deresponsabilizzandosi mediante la retorica emergenziale “dei migliori”, avrebbe potuto rispondere adeguatamente alle pretese del pilota automatico, della tecnocrazia, della Bce. E quelle pretese la Bce le mise nero su bianco in una famosissima lettera firmata da Jean-Claude Trichet e da Mario Draghi nell’agosto del 2011. Ci piegammo, dietro la guida di un liquidatore bocconiano, e mediante i lacrimanti alfieri della troika mascherata rispondemmo adeguatamente a quanto ci richiedevano. Tra le varie: 1) «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione»; 2) «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti»; 3) «valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi».
La riforma delle pensioni, i tagli drammatici della spesa pubblica (molti dei quali li abbiamo pagati durante la crisi sanitaria), il pareggio di bilancio in Costituzione, il depotenziamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: tutte riforme che Giorgio Napolitano chiedeva di valorizzare, in occasione di quel famoso discorso. Ma ancora voleva di più, molto di più e la risposta l’abbiamo vista nell’epoca successiva, sotto i governi di larga coalizione e di responsabilità che il Capo dello Stato auspicava: pensate al Jobs act di Renzi, per dirne una.
Sono queste le riforme che Cacciari non riesce a vedere? Addirittura ne sarebbero servite delle altre per “modernizzare” ulteriormente il Paese?
La verità è che Giorgio Napolitano ha inaugurato una nuova stagione del Quirinale: una fase inedita (abbracciata dal suo successore) nella quale il Capo dello Stato abbandona il ruolo di garante della Costituzione, per abbracciare quello di garante del pilota automatico, whatever it takes. Il riferimento a Draghi – che già in quegli anni ebbe un ruolo chiave – non è casuale: lui sta a Mattarella come Monti sta a Napolitano. La scelta di Napolitano di disarcionare Berlusconi per soppiantarlo con Monti, che intanto aveva nominato senatore a vita, fu una chiara decisione di indirizzo politico: adottò precisamente la stessa logica secondo la quale Mattarella decise anni dopo di sbarrare la strada a Paolo Savona per non destabilizzare i mercati e per non mettere in discussione la nostra adesione all’euro, strumento principe di depoliticizzazione delle istituzioni democratiche nazionali.
Il vuoto della politica è stato scavato anche da questo modo di intendere il Quirinale, che l’ha costretta e imbrigliata ulteriormente nei vischiosi parametri di Bruxelles, per poi approfittare di quello stesso immobilismo per dettare l’agenda.
Che la politica fosse e resti inadeguata è indubbio, basta uno sguardo agli uomini e alle donne che oggi popolano le istituzioni democratiche perché un senso di nausea e di vuoto ci pervada, ma abbandonarsi tra le braccia di una figura che ormai da decenni tiene la barra dritta di una regia che volge lo sguardo lontano dalla Costituzione è semplicemente suicida: di riforme ne abbiamo avute eccome, tutte sbagliate.
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