La “Françafrique è morta”. Lo ha annunciato il presidente francese Emmanuel Macron in un’intervista il 24 settembre al canale nazionale Tf1, spiegando che “nelle prossime ore il nostro ambasciatore (Sylvain Itté, di cui la giunta nigerina aveva già chiesto l’allontanamento, ndr) e diversi diplomatici torneranno in Francia”. Macron ha poi aggiunto che la cooperazione militare con Niamey è “finita” e che le truppe francesi si ritireranno “nei mesi e nelle settimane a venire” con un ritiro completo “entro la fine dell’anno”. L’annuncio di Macron arriva due mesi dopo il colpo di stato avvenuto il 26 luglio scorso nel Paese dell’Africa occidentale e che ha deposto il presidente filo-Parigi Mohamed Bazoum. La giunta militare del Niger ha risposto rapidamente alle dichiarazioni di Macron in un comunicato letto alla televisione nazionale: “Celebriamo un nuovo passo verso la sovranità del Niger”. “Questo è un momento storico, che dimostra la determinazione e la volontà del popolo nigerino”, ha aggiunto. Macron, durante l’intervista, ha però riaffermato la posizione della Francia secondo cui Bazoum è tenuto “in ostaggio” e rimane “l’unica autorità legittima” nel paese spiegando infine che “ci consulteremo con i golpisti” solo perché “vogliamo che le cose si svolgano con calma”.

Inizialmente la Francia aveva infatti dichiarato di voler difendere la legittimità del presidente democraticamente eletto e di non volersi piegare alle minacce del regime militare golpista. Macron aveva riaffermato con fermezza questa linea in un discorso pronunciato ad agosto davanti agli ambasciatori francesi riuniti a Parigi, concetto poi in realtà ribadito, ma con minor vigore, anche durante l’intervista del 24 settembre in cui ha spiegato che “i golpisti sono gli alleati del disordine”. Il colpo di stato contro Bazoum è l’ultimo di una serie di golpe di questo tipo nella regione in tre anni. Tra il 2020 e il 2023, il Sahel è stato infatti testimone di sei colpi di stato: due in Mali, due in Burkina Faso, uno in Guinea e il più recente in Niger. Tutti questi colpi di stato sono stati innescati da fattori simili, vale a dire il deterioramento della situazione della sicurezza e la cattiva gestione degli affari di stato, e tutti hanno avuto in comune il fatto che Parigi è stata costretta al ritiro delle sue truppe. Ma il colpo di stato del Niger è particolarmente doloroso per Macron, che ha cercato di trovare un alleato speciale in Niamey e un hub per la presenza della Francia nella regione, oltre che una via preferenziale per i giacimenti di oro e uranio nel paese saheliano, quest’ultimo materiale alquanto prezioso per le centrali nucleari del paese europeo. La linea dura di Macron non è stata però ugualmente condivisa dai suoi alleati internazionali, che la vedevano come controproducente e pericolosa. Gli Stati Uniti, che hanno circa mille soldati in Niger, e il resto dell’Occidente hanno rifiutato un intervento militare in Niger, reminiscente di quanto successo in Libia, per mantenere le speranze in una soluzione diplomatica della crisi.

Parigi ha quindi capito che vincere questa partita sarebbe stato impossibile. “Ogni giorno che passava dal golpe la posizione francese diventava meno salda. La prospettiva di un intervento militare non era realista né auspicabile”, spiega il giornalista francese di France Inter, Pierre Haski, nella sua rubrica quotidiana Géopolitique. “La serie di golpe nei paesi africani francofoni – continua Haski – ha messo la Francia in una posizione delicata, soprattutto considerando i diversi atteggiamenti che ha adottato: in Ciad il figlio del presidente Idriss Déby, che ha preso il posto di suo padre senza rispettare la costituzione, ha ricevuto l’investitura di Macron. Invece i colpi di stato in Mali, Burkina Faso e Niger sono stati fermamente condannati. Infine, in Gabon la Francia ha trattato il golpe come un affare di famiglia, senza protestare troppo”. Questi diversi atteggiamenti dimostrano quindi l’incoerenza francese nel trattare la questione africana, coronata dal fallimento della politica estera di Parigi in quest’area del mondo. Come spiega infatti Haski, “quella della sicurezza di fronte all’avanzata estremista; quella politica, con il crollo delle democrazie di facciata; e quella identitaria, con l’ombra della Francia che ancora si estende su questi paesi a sessant’anni dalle indipendenze”, sono le tre questioni a cui Macron e la sua amministrazione non sono riusciti a trovare soluzioni ragionevoli.

La questione diventa anche istituzionale e alimenta ulteriormente un dibattito annoso nella repubblica francese. Come spiega infatti il deputato di Écologie Démocratie Solidarité Aurélien Taché, “la Quinta Repubblica attribuisce” il potere decisionale sugli affari di politica estera “solo al presidente, mentre nel resto del mondo, dal Congresso americano al Bundestag tedesco, il Parlamento ha voce in capitolo nelle relazioni internazionali e nelle operazioni militari”. Continua poi Taché: “Per costruire strategie efficaci a lungo termine, abbiamo bisogno del contributo collettivo di tutto lo spettro politico francese, non di decisioni a breve termine decise tra due o tre funzionari governativi”. Secondo il deputato di Eds la narrazione della Francia sulla “protezione della democrazia non è nemmeno poi più credibile. Ciò è apparso fin troppo chiaro quando Macron ha dimostrato di non avere problemi ad abbracciare il primo ministro indiano, Narendra Modi, responsabile di numerose atrocità contro musulmani e cristiani nel suo paese. Parigi sembra inoltre non avere problemi a vendere droni al sovrano autocratico egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che li ha poi utilizzati per rintracciare e arrestare i suoi oppositori politici”. Macron invece si difende spiegando di essere realmente “molto preoccupato per questa regione”, dichiarandosi “orgoglioso dei nostri militari” e concludendo infine che “però non siamo responsabili della vita politica di questi Paesi e ne trarremo tutte le conseguenze”.

Twitter: @youssef_siher

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