La docuserie Netflix dedicata interamente al rocker ne ripercorre le fasi salienti del percorso artistico, ma anche della vita. Sensibile e con occhio sempre vigile a quello che le nuove generazioni vivono. FqMagazine ha visionato in anteprima le prime tre puntate “Nascita del mito”, “ Sesso, droga e rock and roll” e “Progetto famiglia”
“Pensavo di morire giovane, ero pronto a sacrificare la mia vita per quell’avventura lì, straordinaria, che stavo facendo”. Pronto a morire per la musica rock, la sua unica vera religione. C’è tutto il Vasco Rossi pensiero nella docuserie, in cinque puntate, disponibili su Netflix “Il Supervissuto – Voglio una vita come la mia”. Sensibile e con occhio sempre vigile a quello che le nuove generazioni vivono, Vasco Rossi è il primo e unico ad essere “supervissuto”, nella storia della musica italiana, a tre malattie mentali e agli ultimi decenni di storia. Nelle immagini che sono state girate dal fidato Pepsy Romanoff (di qualità e senza sbavature) non c’è solo il Vasco Rossi artista che tutti conoscono, ma anche l’uomo fragile, sensibile che vive l’arte e la musica sulla pelle viva. Anarchico e anticonformista, amante della provocazione per smuovere non solo le coscienze, ma anche la fantasia. Sintesi di un “selfie lungo cinque ore” è il brano inedito che accompagna la docuserie, “Gli sbagli che fai”. “Ho passato una sera con me”, spiega subito Vasco all’inizio del brano. Poi inizia una analisi introspettiva intensa: “Sempre a correre, correre scappando da che (…) Sempre a prendere, prendere che non si sa mai. A cercar di correggere gli sbagli che fai” fino a “prendimi la mano e raccontami che niente è impossibile”, a sottolineare “l’elogio dell’arte che regala l’illusione di credere. Anche solo con una canzone la mente può scacciare via tutti i pensieri e portarti là dove tutto è possibile”.
“Sono sopravvissuto agli Anni 70 anni, negli anni di piombo, delle brigate rosse, di lotta continua, del potere operaio. – racconta Vasco all’inizio della prima puntata – Io ero un indiano metropolitano che cercavo di migliorare me stesso perché ero un uomo anarchico. Sono sopravvissuto agli Anni 80 gli anni da bere, i più stupidi del secolo, ma anche i più divertenti. Sono sopravvissuto facendo del rock, ho scritto pezzi generazionali canzoni provocatorie. Sono sopravvissuto agli Anni 90 quando ho voluto costruire una famiglia, la scelta più coraggiosa che avrebbe potuto fare una rockstar. Uscire dallo stupido hotel. Alla fine del millennio quando tutti gli amici intorno cominciavano a morire, sono andato in depressione e anche lì sono andato avanti. Ho affrontato gli Anni ’10 mantenendo sempre il livello dei concerti dal vivo straordinario. Sono sopravvissuto a tre malattie mortali quando nel 2011 sono andato in coma tre-quattro volte e preso per un pelo, fino al 2020 quando è arrivata questa catastrofe montale. Io penso che sopravviverò a questo virus del cazzo, forse però morirò di noia per il lockdown. Io sono un super vissuto”.
NASCITA DEL MITO – La compagna di adolescenza, ma anche dei primi concerti, di Vasco è stata la chitarra. Una infanzia felice, coccolato dalle donne di famiglia, le prime poesie. Il concorso di voci nuove, già vincitore da piccolissimo. Un predestinato. Le prime band, i lavoretti d’estate e in discoteca. Il primo colpo di fulmine con la radio, lì inizia a farsi conoscere. L’incontro con Floriano Fini, il suo attuale manager, quando aveva 8 anni. La svolta della vita con il lavoro alla Discoteca Snoopy di Modena. L’arrivo di “Albachiara” e la costruzione di una canzone che virava al rock. I primi successi “Jenny è pazza”, “Silvia” (il primo 45 dischi autofinanziato), gli assoli pazzeschi di Maurizio Solieri , “Non siamo mica gli americani”, il primo rap, “Fegato Fegato spappolato”. Il primo concerto in Piazza Maggiore a Bologna, organizzato dall’impresario Bibi Ballandi. Da lì una corsa inarrestabile live. Fino al “fatto di Vicenza”. “Mentre cantavo – racconta Vasco – dal bar vicino al palco mi tiravano le freccette di carta, mentre cantavo ‘Jenny’. Mi sentivo umiliato a livelli totali per cui non vedevo l’ora di scendere dal palco per andare a casa. Scendo dal palco riesco ad andare in macchina, mentre piangevo dalla rabbia. Lì, non so cosa mi è successo nel cervello, c’è stata un’altra svolta: ho messo il mio orgoglio sotto i piedi e o detto ‘no adesso stai lì tu, adesso faccio questo lavoro e canto’. La morte improvvisa del padre ha scioccato Vasco. La sera stessa aveva un concerto ma il rocker sale su palco lo stesso a cantare, spinto anche dalla madre: “A quel punto non giocavo più, scrivevo canzoni, cantavo, se qualcuno mi rompeva le palle lo ammazzavo”.
SESSO DROGA ROCK N ROLL – “Negli Anni 80 venivo considerato il nemico pubblico numero 1, la gente mi incontrava per strada e mi sputava – ricorda Vasco -. Parlavano tutti di droga negli Anni 80 ed io ero quello che ne parlava meno. Avevo occhiali neri e giacca di pelle e cantavo ‘Sensazioni Forti’, andavo a prenderli per il culo. Ero il rocker della nuova generazione e dicevo le cose come stavano”. L’aneddoto legato a “Colpa d’Alfredo” (1980): “Raccontavo quello che mi era successo la sera prima in discoteca, ma non era un nero che mi aveva soffiato la ragazza, ma uno che ballava molto bene, Santino. Io mi ero distratto un attimo come dico nella canzone”. Arriva il Vasco più rock e più duro con il terzo disco, “Colpa d’Alfredo”. “’Siamo solo noi’ nasce dopo una caduta durante un concerto – ha spiegato l’artista – mi sono rialzato facendo finta di nulla, ma dentro ero incazzatissimo. Tornando a casa, piangendo, ho iniziato a scriverla. Era il sunto della nuova generazione di delusi dai sogni degli Anni 70 che poi non si erano avverati, tutto era andato a farsi fottere”. Agli inizi degli Anni 80 Vasco si isola va ad abitare in un capannone industriale per suonare l’amplificatore “quando volevo, mi sono isolato vedevo poco gli amici e la mamma. In compenso non avevo vicini che rompevano se suonavo”. Nonostante una vita “spericolata” Vasco si presentava sempre puntualissimo sul palco per i concerti. “Sono uscito da ogni inferno e da ogni paradiso, sempre in tempo per salire sul palco. Sesso, droga e rock and roll”, chiosa Vasco. In quel periodo il cantautore stava sveglio tre giorni filati e dormiva per tre giorni: “Ero in perenne stato di creatività, bevevo un litro di latte con 4 cucchiai di zucchero perché mi piaceva dolce e vivevo praticamente di quello. Non mangiavo quasi più negli ultimi anni. Pensavo di morire giovane ero pronto a sacrificare la mia vita per quell’avventura lì straordinaria che stavo facendo. Usavo l’anfetamina, sapevo a cosa portava ma non me ne fregava un cazzo perché in quel momento stavo creando la storia della musica”. Poi la rottura degli schemi del Festival di Sanremo con la partecipazione nel 1982 con “Vado al massimo”, dove passa il turno mentre Claudio Villa viene eliminato. Il ritorno a Sanremo l’anno successivo con “Vita spericolata”: “Una canzone sul vivere intensamente e pericolosamente, non certamente una vita da ragioniere. Tutti negli Anni 80 non volevano vita sicura e tranquilla e io interpretavo una situazione generale”.
PROGETTO FAMIGLIA – Arriva il carcere. Molti non aspettavano altro. “Avevo la quantità in casa 20-30 gr di cocaina, ma solo perché non andavo a comprarla tutti i giorni, ne compravo una scorta. – ha ricordato Vasco – Per la legge sono stato considerato uno spacciatore, ma non ho mai spacciato. Rimango dentro 22 giorni che sono stati 22 mesi, cinque giorni in isolamento. Sono stato il capro espiatorio degli Anni 80 perché si facevano tutti, ma sono stato l’unico ad essere stato denunciato dal proprio spacciatore. Quando sono uscito ero talmente incazzato che ho utilizzato tutta questa esperienza per togliermi tutte le paure e le paranoie che avevo. Salire sul palco, per esempio, mi metteva sempre angoscia per cui mi ubriacavo e mi facevo di tutto. Dopo quei fatti ho fatto una grande riflessione sulla mia vita. Ho risposto alla mie responsabilità e per disintossicarmi dall’anfetamina ho passato tutto l’inverno a letto, dopo gli anni di sesso droga e rock n roll”. Vasco riparte da zero nel 1987 con una nuova band e un nuovo approccio sul palco. Poi arriva l’amore con “la Laura”, che aveva solo 17 anni, ma carattere da vendere. “Quando questa cosa è iniziata – ricorda la moglie di Vasco -, diverse persone attorno a lui hanno remato contro perché pensavano che non fossi la persona giusta perché ero più pazza di lui”. Vasco capisce che è il momento di pensare a una famiglia: “Mi trovavo al capannone, piangevo di notte e non sapevo perché. Mi ero stancato proprio di quella vita lì, avevo bisogno di un punto di riferimento per tornare coi piedi per terra. La grande trasgressione che poteva fare negli Anni 80 era quella di costruire una famiglia”. Nasce così Luca che del padre apprezza “la resilienza, dopo aver ricevuto calci in bocca momenti difficilissimi, ma è andato avanti”. I grandi successi di “C’è chi dice no” e “Liberi Liberi” spianano la strada al primo San Siro del 1990, nato quasi come scommessa, per poi rivelarsi un grandissimo successo.