Googlo ergo sum. Oggi se non sei su Google non esisti.

Google è IL motore di ricerca e non essere indicizzato significa perdere del tutto identità e domicilio digitali. Questo vale per tutti, cittadini, imprese, pubbliche amministrazioni di qualsiasi natura e dimensione.

Il potere di decretare la vita o la morte digitale di un qualsiasi essere qui sulla Terra (e non) Google LLC l’ha accumulato in soli 25 anni. E negli anni l’ecosistema Google ci ha inesorabilmente cambiati, offrendoci servizi disparati che sono entrati prepotentemente nella nostra vita quotidiana, da Google Maps a Google Translator, da Google Meet a Google Drive, da Google Calendar a Google Earth, passando per YouTube sino ad arrivare alle frontiere dell’intelligenza artificiale generativa concretizzatasi in Bard.

Oggi esistiamo digitalmente perché Google lo consente, aprendoci i sogni della realtà virtuale dove ogni nostro movimento si trasforma in mirabili bit, eliminando del tutto la cesura fino a pochi anni fa esistente tra mondo fisico e digitale. Insomma, tutti i nostri diritti e doveri di cittadinanza digitale sono saldamente in mano a Google. E, in merito a ciò, mi è venuta in mente la parabola raccontata da Gesù ai suoi discepoli nel Vangelo secondo Matteo (Mt 20,1-16): il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò” (…).

Nel regno del web, però, non è stata la bontà a guidare le scelte del padrone e neppure il suo volere si è fatto strada negli anni caratterizzandosi da regole trasparenti. Il conto salato della nostra esistenza digitale lo paghiamo da più di vent’anni, infatti, con i nostri dati personali, anche quelli più intimi, che vengono sistematicamente gestiti, profilati e controllati da altri alle nostre spalle. Infatti, il mercato digitale – come sappiamo – oggi è in mano a pochi giganti, i cosiddetti OTT (Over The TOP), che fanno parte dell’oligopolio GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft), i quali si sono suddivisi abilmente ogni dettaglio della nostra esistenza digitale, senza essere disturbati nel loro cammino commerciale da regole normative, perché la politica fino a pochi anni fa è stata totalmente indifferente a questi aspetti.

Solo negli ultimi anni l’Europa ha avviato politiche legislative a tutela dei nostri diritti e libertà fondamentali, proponendo una regolamentazione più trasparente e garantista per noi cittadini europei, prevedendo anche pesanti sanzioni (che possono arrivare sino al 20% del fatturato mondiale annuo, in caso di recidiva) per i gatekeeper. Si è partiti nel 2016 con il regolamento Ue sulla protezione dei dati personali, per arrivare oggi a proporre a tutela di noi cittadini europei una articolata legislazione che si occupa di ogni dettaglio dei mercati digitali, sino alle complesse problematiche dell’intelligenza artificiale. In realtà, stiamo assistendo a una vera e propria ipertrofia normativa a livello europeo, probabilmente dettata dalla voglia di colmare frettolosamente l’enorme silenzio politico perdurato tanti anni. E siamo investiti così da una serie di acronimi che sfuggono alla conoscenza dei comuni cittadini (e persino degli attenti interpreti che rischiano di andare in confusione): eIDAS, GDPR, NIS, DSA, DMA, DGA, Data Act, AI Act, DORA e così via, in un groviglio, quasi impenetrabile, di norme (e relative sanzioni) che mirano a governare aspetti diversi, a volte paralleli e a volte no, dello stesso fenomeno: il Noi digitale.

Non posso non chiedermi se questo modus operandi davvero sarà in grado di tutelarci in modo efficace dallo strapotere dei GAFAM. Sta di fatto che lo Sport è entrato nella nostra Costituzione, mentre i nostri diritti di cittadinanza digitale ancora no. C’è da dire che molti diritti derivati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalla Dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali, o dal Codice dell’amministrazione digitale, li avvertiamo ormai come “costituzionalizzati”, ma costituzionalizzati effettivamente non sono. Si potrebbe ragionare sul fatto che invece nell’alveo della nostra bella Costituzione italiana la protezione del dato personale si troverebbe già garantita come diritto inviolabile, quindi godere comunque della copertura indiretta offerta dall’art. 2. Così come qualsiasi privazione della libertà o violazioni della nostra dignità realizzate attraverso i tentacoli del web, in mano ai suoi giganti, si ritroverebbero condannate attraverso una lettura evolutiva degli articoli 3 e 13. E anche l’Internet, nelle sue fattezze di strumento di comunicazione, ritroverebbe una regolamentazione nell’art. 15, laddove si prevede solennemente che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Così come il domicilio digitale vedrebbe la sua inviolabilità tutelata nell’art. 14. E, infine, l’art.21 della nostra Costituzione, nella sua lungimirante apertura, laddove annuncia che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, sembra tranquillamente adattarsi al web, ai social, proiettandoci verso una possibile, incredibile tutela dai pericoli di profilazione e manipolazione che possono essere perpetrati attraverso tecniche digitali favorite dalle ultime frontiere dell’IA generativa.

Lo scrivo perché l’astrattezza di una regolamentazione (scritta bene) è in grado di resistere all’implacabilità del tempo, pur se qualche adattamento potrebbe rendersi necessario considerati i rischi per i nostri diritti e libertà fondamentali che la digitalità determina. Riflettiamoci su. Oppure possiamo sperare che tutto si autoregoli grazie alla bontà del padrone che però, diversamente da quanto insegna la parabola del Vangelo, qui può cacciarci dal web quando vuole e senza troppo pensarci.

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