Ci sono i dispacci segreti di Gladio su operazioni in “ambito Nato” organizzate vicino al villino di Giovanni Falcone all’Addaura, due giorni prima rispetto al fallito attentato del 21 giugno 1989. E c’è la testimonianza di Pino Arlacchi, lo scrittore al quale il magistrato ucciso nella strage di Capaci confidò che quello di Piersanti Mattarella era “un caso Moro bis“. E poi ci sono pure le intercettazioni in carcere in cui Totò Riina definiva il terrorista nero Pierluigi Concutelli come “massone” vicino a Stefano Bontade. Ma ci sono anche i racconti di Francesco Di Carlo, il boss di Altofonte che ricevette una visita da uomini dei servizi segreti mentre era detenuto nel carcere di Full Sutton in Inghilterra: chiesero un contatto con Cosa nostra per bloccare il lavoro di Falcone, lui li mise in contato con suo cugino, Antonio Gioè. Lo stesso uomo che anni dopo partecipò all’eliminazione di Vincenzo Milazzo, il boss di Alcamo che – come raccontò il suo autista Armando Palmeri – venne ucciso dopo avere rifiutato la proposta di imprecisati “uomini dei servizi“: volevano che partecipasse a un piano di “destabilizzazione dello Stato“. È un filo nero che collega tutti i buchi delle stragi quello tratteggiato da Roberto Scarpinato, in una memoria lunga 60 pagine inviata alla commissione Antimafia nelle scorse settimane.

La memoria a San Macuto – L’ex procuratore generale di Palermo, eletto in Senato dal M5s, ha lavorato su centinaia di atti investigativi, mettendo in risalto quelli che sono gli elementi in comune tra la cosiddetta strategia della tensione e le bombe degli anni ’90. Il risultato è un dossier che mette in fila i collegamenti tra le varie indagini sulle stragi e contemporaneamente prova a dare un impulso all’Antimafia per indagare su vari punti oscuri: per ogni elemento, infatti, Scarpinato propone una serie di audizioni di testimoni e acquisizioni di documenti. “Il rigetto della presente richiesta oltre che tradire i compiti e la missione istituzionale di questa Commissione, sarebbe un grave e inammissibile vulnus alle aspettative e al diritto alla verità storica dei familiari delle vittime, nonché una scelta che per il suo carattere ingiustificato incrinerebbe la stessa credibilità istituzionale della commissione, avallando l’interpretazione che per motivi politici di parte non si siano voluti svolgere approfondimenti concernenti il coinvolgimento nelle stragi di apparati statali e di soggetti appartenenti o comunque collegati al mondo politico“, scrive il senatore alla fine della sua memoria, insieme agli altri parlamentari del M5s a palazzo San Macuto.

L’indagine della Colosimo – All’inizio di settembre la presidente dell’Antimafia, Chiara Colosimo, ha anticipato l’intenzione di condurre un’indagine sulla strage di via d’Amelio, che comincerà con le audizioni di Lucia Borsellino e l’avvocato Fabio Trizzino. La decisione ha provocato il dissenso dei 5 stelle, che vorrebbero sentire anche Salvatore Borsellino e il suo legale, Fabio Repici. Il punto sul quale insiste Scarpinato, però, è soprattutto l’intenzione della presidente dell’Antimafia di lavorare solo su via d’Amelio, senza allargare il quadro a tutto il disegno stragista. Una scelta che per il senatore “appare incomprensibile e ingiustificata sia nel merito che nel metodo”. Intanto perché vuol dire che la commissione ammette il suo “disimpegno” a indagare su tutte gli altri eventi ancora oscuri: dall’incipit della strage di Capaci fino al fallito attentato allo stadio Olimpico. E poi perché “il filo conduttore che inanella le plurime e concordanti risultanze sulla compartecipazione di soggetti esterni a tutto il disegno stragista può essere individuato e ricostruito solo se si ricostruisce il quadro globale della sequenza stragista di quegli anni”. Insomma: secondo Scarpinato per indagare su via d’Amelio non si possono ignorare “pregiudizialmente e artificiosamente i nessi che collegano quella strage a quella di Capaci e a quelle successive”. L’ex magistrato ricorda che “molteplici e rilevanti risultanze processuali attestano infatti che i soggetti coinvolti con ruoli di depistaggio e di partecipazione occulta alla strage di via D’Amelio appartengono ai medesimi apparati e ai medesimi ambienti criminali operativi nella strage di Capaci del 23 maggio 1992 e in quelle del 1993″.

Neri, mafiosi e 007: stragi diverse, stessi uomini – Tutto il lavoro di Scarpinato mette in risalto come dalla strage di Bologna alle stragi del 1993 ritornino sempre gli stessi personaggi. Il primo esempio citato è quello di Paolo Bellini, esponente di Avanguardia nazionale, legato ad ambienti dei servizi segreti e condannato in primo grado per la strage del 2 agosto 1980, che era in Sicilia nel periodo delle bombe del ’92: oggi è indagato dalla procura di Caltanissetta come “suggeritore” degli obiettivi da colpire nel ’93, cioè i beni del patrimonio artistico del Paese. Il contatto di Bellini dentro Cosa nostra era Nino Gioè, uomo della famiglia mafiosa di Altofonte, che ai tempi degli obblighi di leva viene definito dai carabinieri come “giovane che offre fiducia per la sicurezza ed ritenuto idoneo a disimpegnare particolari incarichi di natura riservata”. Si chiede oggi Scarpinato: “Quali incarichi di natura riservata furono affidati al Gioè?”. Nella sua memoria il senatore fa notare che il mafioso di Altofonte era il contatto fornito dal pentito Francesco Di Carlo a tre esponenti dell’intelligence. Trafficante di droga con base in Inghilterra, accusato di essere l’assassino di Roberto Calvi, nel 1989 Di Carlo si trova nella prigione di Full Sutton, in Gran Bretagna, quando riceve la visita di tre persone, tutti agenti dei servizi: un tale Giovanni, che si era presentato come amico di Mario Ferraro, uomo del generale Giuseppe Santovito, già capo del Sismi; un secondo uomo di nome Nigel che si qualificò come uomo dell’intelligence inglese e un altro italiano, di cui Di Carlo non percepì il cognome. Che volevano gli 007 dal mafioso detenuto? Secondo Di Carlo gli chiesero un contatto con Cosa nostra per attuare un “piano di delegittimazione” del giudice Falcone, costringendolo ad andare via da Palermo. Lui li indirizzo verso Gioè, che era suo cugino. Tempo dopo il pentito riconobbe sul giornale la foto del terzo agente, quello di cui non aveva sentito il cognome: era Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo che negli anni successivi gestirà la collaborazione di Vincenzo Scarantino, il falso pentito al centro del depistaggio delle indagini sull’omicidio di Paolo Borsellino. “Esiste una connessione tra questa richiesta di La Barbera e il suo successivo ruolo nel depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio?”, chiede Scarpinato nel suo dossier.

Operazione Domus Aurea – Non si sa cosa fecero gli 007 dopo l’incontro con Di Carlo. Si sa, però, che pochi mesi dopo vennero ritrovati 58 candelotti di esplosivo nei pressi del villino che Falcone aveva preso in affitto all’Addaura, una borgata marinara di Palermo. La storia del fallito attentato al giudice del Maxiprocesso non fu mai chiarita del tutto. È dopo quell’episodio, però, che Falcone parla di “menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi”. A che si riferiva Falcone? Nella sua memoria Scarpinato riporta il contenuto di un dispaccio segreto di Gladio, cioè l’organizzazione paramilitare clandestina che aderiva a Stay Behind, l’operazione promossa dalla Cia in Europa in chiave anti comunista. Quel documento, scovato da un’inchiesta giornalistica e poi depositato agli atti del processo per l’omicidio del sociologo Mauro Rostagno, risale al 19 giugno dell’89 e incarica l’articolazione di Gladio a Trapani di eseguire un’operazione nei pressi di un villino all’Addaura. Il nome in codice dell’operazione è Domus Aurea, che per i romani era la casa dell’imperatore: due giorni dopo venne trovato l’esplosivo nei pressi della villa di Falcone. “Chi e per quali motivi ordinò quell’operazione?”, è la domanda posta da Scarpinato, che chiede alla commissione Antimafia di acquisire i 190mila documenti relativi a Gladio declassificati due anni fa dalla direttive del governo di Mario Draghi.

“Mattarella? Un caso Moro bis” – Per carcare di capire il ruolo di Gladio nel fallito attentato dell’Addaura l’ex procuratore generale di Palermo riporta un altro racconto del pentito Di Carlo, quello contenuto nel libro Dietro le stragi (di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, edito da Paper First): il mafioso spiega che alla fine degli anni ’70 aveva personalmente effettuato per conto dei servizi il trasporto di una grande quantità di armi e di esplosivo da San Vito Tagliamento, in provincia di Udine, fino alla Sicilia, dove il carico era stato ritirato da un furgone guidato da personaggi ignoti. “Quali erano i rapporti tra Cosa Nostra e Gladio?”, si chiede il magistrato. Che poi torna alle convinzioni di Falcone sull’omicidio Mattarella, il presidente della Regione Siciliana ucciso nel 1980. “Il problema di maggiore complessità per quanto riguarda l’omicidio Mattarella deriva dall’esistenza di indizi a carico anche di esponenti della destra eversiva quali Valerio Fioravanti“, raccontava Falcone alla commissione Antimafia nel 1988. “Questa – proseguiva il magistrato – è un’indagine estremamente complessa perché sì tratta di capire se e in quale misura ‘la pista nera‘ sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”. Fioravanti è stato condannato in via definitiva per la strage di Bologna mentre è stato assolto dall’accusa di aver assassinato Mattarella. Secondo Falcone l’omicidio del fratello dell’attuale capo dello Stato “è stato un caso Moro bis, l’esecuzione fu opera di killer mafiosi e di terroristi inviati dalla P2 e sostenuti, forse anche ospitati, dalla base Gladio di Trapani”. Il giudice ne parlà con lo scrittore Pino Arlacchi, che poi riportò la confidenza nel suo libro Giovanni e Io. “Sto ancora cercando riferimenti – spiegò Falcone – è una buona fonte negli ambienti di destra”. Chi era questa fonte di Falcone? Forse Alberto Volo, un professore palermitano che era stato paracadutista della Folgore e aveva militato in alcune formazioni della destra eversiva? Volo verrà sentito più volte da Falcone, raccontando quanto aveva appreso sull’omicidio Mattarella. La sua sicurezza era stata affidata ad Antonino Agostino, un poliziotto che ufficialmente lavorava al servizio Volanti del commissariato di San Lorenzo, ma che in pratica – come è emerso soltanto di recente – collaborava riservatamente con Falcone. Quando l’agente di Polizia verrà ucciso insieme alla sua giovane moglie, il magistrato dirà che quell’omicidio era “un segnale diretto contro di lui“. È per questo che muore Agostino? Perché conosceva i segreti confidati da Volo a Falcone? Ed è per lo stesso motivo che a Francesco Onorato era stato ordinato di assassinare lo stesso Volo? Scarpinato ricorda che Onorato, dopo essersi pentito, racconterà come quest’ordine provenisse da Riina ed era una richiesta fatta a Cosa nostra da Pierluigi Concutelli, il capo militare di Ordine nuovo. Un personaggio che Riina ammetterà implicitamente di conoscere nel 2012, quando intercettato in carcere lo definirà “massone“, in passato vicino a Bontade, il principe di Villagrazia ucciso per ordine dello stesso capo dei corleonesi nel 1981.

Il boss che non voleva le stragi – Scarpinato ritorna spesso sulle parole di Riina. Non solo sulle intercettazioni, ma anche su quelle riportate dai pentiti. Per esempio l’ex magistrato si chiede chi fossero i “personaggi importanti” che – come hanno raccontato i Onorato e Salvatore Cancemi – indussero il capo dei capi ad annullare l’ordine di uccidere Falcone a Roma, ordinando il rientro del commando guidato da Matteo Messina Denaro. Era il marzo del 1992: Falcone doveva essere assassinato a colpi di arma da fuoco nella Capitale. Invece, come è noto, sarà eliminato a Capaci, dove viene allestita una strage che ricorda modalità militari. Dopo l’eliminazione del giudice qualcuno riuscì a entrare nel suo ufficio al ministero della Giustizia, esaminando alcuni file presenti sul suo computer relativi a Gladio e ai delitti politici e cancellandone altri. “Come fu possibile tale ingresso abusivo in una stanza posta sotto sequestro, con quali complicità?”, chiede Scarpinato. Il senatore racconta anche la storia di alcuni delitti sullo sfondo delle stragi, rimasti a lungo indecifrabili. Come quello di Vincenzo Milazzo, il boss di Alcamo ucciso il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima della strage di via d’Amelio. Poco dopo uccideranno anche la sua compagna, Antonella Bonomo. Per ammazzarlo si muove il gotha di Cosa nostra: Leoluca Bagarella, cioè il cognato di Riina, Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci e pure Antonino Gioè, il cugino di Di Carlo che era amico di Bellini. Perché viene ucciso Milazzo? “Perchè non voleva le stragi“, disse Gioè a suo cugino Di Carlo. Giustificazione confermata da Armando Palmeri, l’ex autista di Milazzo, che racconta di aver accompagnato il suo capo a tre riunioni con esponenti dei “servizi”, mai individuati. “Volevano mettere in atto una strategia di destabilizzazione dello Stato con bombe e attentati. Da quegli incontri Milazzo usciva molto turbato. Mi diceva: questi sono pazzi scatenati e che quello che volevano fare avrebbe portato alla fine di Cosa nostra e che non avrebbe portato beneficio a nessuno. Milazzo non era favorevole ma rispondeva con un ‘Ni’ a quel progetto. Se avesse detto no sarebbe stato un gran rifiuto e ci avrebbero ammazzato”, è il racconto del pentito, morto improvvisamente nel marzo scorso. Pochi giorni dopo doveva sostenere un confronto con Baldassare Lauria, un anziano medico di Alcamo ed ex parlamentare di Forza Italia, che secondo Palmeri aveva partecipato agli incontri con Milazzo. Il medico ha sempre respinto ogni accusa, ma nella sua memoria Scarpinato si chiede perché Lauria “è stato interrogato per la prima volta solo nell’anno 2020, ben sedici anni dopo” l’identificazione della Dia, avvenuta nel 2004. L’ex magistrato si chiede inoltre se c’è “un collegamento tra l’omicidio del Milazzo e la strage di via D’Amelio, con il coinvolgimento pure di uomini dei servizi interessati a fare sparire l’agenda rossa di Borsellino e sino ad oggi mai identificati”.

Cosa aveva scoperto Borsellino? – Da procuratore generale di Caltanissetta Scarpinato è il magistrato che ha dato avvio al processo di revisione per gli imputati ingiustamente condannati nei primi processi su via d’Amelio. Oggi, nel suo atto parlamentare, scrive che Borsellino aveva annotato sull’agenda rossa “tutte le informazioni che si apprestava a riferire alla procura di Caltanissetta e a verbalizzare in proprio per quanto di sua competenza”. Ecco perché se il diario fosse finito “nelle mani dei magistrati, lo scopo dell’accelerazione della strage sarebbe stato frustato. I mafiosi dopo avere fatto esplodere l’autobomba non potevano attardarsi a cercare e prelevare l’agenda rossa, perché potevano essere visti da qualcuno dalle numerose finestre degli appartamenti degli stabili circostanti. Tale compito doveva essere assolto da insospettabili che grazie alle loro credenziali pubbliche potevano subentrare sulla scena della strage senza destare sospetti”. Ma cosa aveva annotato Borsellino sull’agenda? Scarpinato incrocia le dichiarazioni di Agnese Borsellino, dei pentiti Gaspare Mutolo e Leonardo Messina e le parole pronunciate dallo stesso Borsellino nell’incontro a casa Professa del 25 giugno 1992, quando si era definito “un testimone” oltre che un magistrato. “Era venuto a conoscenza di notizie riservatissime e di portata dirompente non solo per i destini individuali di alcuni vertici dei servizi segreti e delle forze di Polizia, ma anche per i complici eccellenti della strage di Capaci ed i suggeritori della strategia stagista“, scrive Scarpinato nel suo dossier, ricordando che subito dopo la strage di via d’Amelio partì il depistaggio delle indagini. La procura di Caltanissetta, infatti, affidò le indagini “in violazione di tutte le regole di legge”, al Sisde di Bruno Contrada cioè “lo stesso soggetto che Borsellino aveva individuato come colluso con la mafia“. Una decisione che l’allora procuratore Gianni Tinebra prese nonostante Antonio Ingroia, all’epoca pm di Palermo, lo avesse allertato sul contenuto delle confidenze fatte da Mutolo a Borsellino proprio relative a Contrada. Che infatti pochi mesi dopo venne arrestato.

Le donne delle stragi – Il dossier preparato da Scarpinato si basa anche sul lavoro della commissione Antimafia nella precedente legislatura. Per esempio il senatore del M5s ricorda come l’indagine sulla strage di via dei Georgofili nel 2022 è arrivata a ipotizzare che al tritolo usato dagli uomini di Cosa nostra per imbottire il Fiorino trasformato in autobomba “venne aggiunta una ingente carica di esplosivo di natura militare, sicché la deflagrazione di siffatta micidiale miscela ebbe effetti ancor più devastanti”. Ma chi aggiunse quella dose supplementare di esplosivo? E ancora: chi erano le persone di sesso femminile avvistate sui luoghi delle stragi di Firenze e di Milano? “Tenuto conto che tali soggetti non potevano appartenere alle organizzazioni mafiose, di quali entità criminali esterne facevano parte? Quali erano gli interessi di cui tali entità erano portatrici?”, si chiede ancora Scarpinato.

Quella foto in un’armeria – Nel marzo del 2020 la procura di Firenze ha iscritto nel registro degli indagati Rosa Belotti, una 57enne di Bergamo accusata di aver guidato fino in via Palestro l’autobomba. I procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli sono convinti che la ragazza bionda indicata da alcune persone presenti sul luogo della strage sia la donna bergamasca. L’hanno individuata con un software, che ha incrociato l’identikit della donna, costruito sulla base dei racconti dei testimoni, con una vecchia foto che ritraeva una giovane: era stata ritrovata durante una perquisizione del settembre del 1993 in un villino di Alcamo, il paese da cui veniva Milazzo. Quell’abitazione, gestita da due carabinieri, nascondeva un gigantesco deposito di armi clandestino: all’epoca si disse che quelle armi servivano alla struttura di Gladio nel Trapanese, ma poi le accuse caddero. La foto, invece, è rimasta agli atti e molti anni dopo ha messo nei guai Rosa Belotti. La donna ha respinto le accuse: lei in via Palestro non c’era. Ma davanti a quello scatto, recuperato ad Alcamo, ha dovuto ammettere: “Si, quella nella foto sono io”. Oggi Scarpinato chiede all’Antimafia di recuperare tutti gli atti d’indagine relativi alla scoperta di quell’armeria: che tipo di armi custodiva? Cosa ci faceva in quella casa in provincia di Trapani la foto di una giovane di Bergamo? E’ un caso che quella ragazza sia particolarmente somigliante alla donna della strage di via Palestro, a Milano?

“Vogliono che facciamo rumore” – Alcamo è la città da cui veniva Milazzo, il boss che non voleva partecipare al piano di destabilizzazione dello Stato. Dopo il suo omicidio, il posto di capomafia viene preso da Giuseppe Ferro, uno degli organizzatori della strage di via dei Georgofili. Da collaboratore di giustizia Ferro racconterà che dopo Firenze si ipotizzò di colpire anche a Bologna. Fu Bagarella a chiedergli un appoggio nel capoluogo emiliano. Ma Ferro obiettò: “Se noi ammazziamo i carabinieri non interessa a nessuno, se ammazziamo il magistrato non interessa ancora a nessuno, ma quando muoiono donne, bambini non ti può più vedere nessuno e noi altri abbiamo contatti con tutto il Paese”. Bagarella rispose fermo: “Peppe, vogliono che facciamo scruscio“. Fare scruscio in siciliano vuol dire fare rumore. In que contesto “fare rumore” voleva dire uccidere civili inermi, colpire i monumenti e terrorizzare la popolazione. Chi è che poteva chiedere una cosa del genere a Cosa nostra? Chi erano i suggeritori esterni delle stragi del ’93? Se lo chiede Scarpinato e vorrebbe che se lo chiedesse tutta la commissione Antimafia.

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