di Andrea Di Leo*
È in questi giorni ripreso il dibattito politico sul condono edilizio, a seguito della proposta del ministro delle Infrastrutture. E, come ogni volta che tale dibattito si accende, il tema è oggetto di posizionamenti poco “laici” e “tecnici” e molto “politici”. Ritengo, invece, che la questione della regolarità del patrimonio edilizio necessiti di una risposta che muova da considerazioni al contempo tecnico-giuridiche e “pragmatiche”.
Partiamo da un presupposto: pressoché chiunque abbia avuto a che fare con la compravendita di un immobile o con un intervento edilizio sul patrimonio esistente, soprattutto se datato di qualche decennio, si è imbattuto in difformità di piccolo-medio cabotaggio rispetto al titolo edilizio originario (maggiori superfici, diversa sagoma, destinazioni d’uso incongruenti, diversa localizzazione, finestre e balconi localizzate differentemente, etc.). E, in moltissimi di questi casi, l’esito delle valutazioni tecniche e legali, magari anche con il consulto degli Uffici tecnici comunali, è sempre lo stesso: impossibile regolarizzare.
Anche se, nel frattempo, l’immobile è stato venduto (anche più volte), ha ottenuto decenni addietro l’agibilità da parte del Comune o altre autorizzazioni amministrative, edilizie e non. Attenzione: quando è impossibile regolarizzare, non è legittimo nemmeno intervenire per efficientare l’immobile (al livello strutturale ed energetico, e questo con gli obiettivi “case green” che presto dovrebbero esserci imposti al livello europeo). Il cosiddetto (perfetto) “stato legittimo” è infatti presupposto essenziale per poter realizzare qualunque intervento (anche di carattere manutentivo).
Se questo – e non la costruzione di fabbricati in modo completamente e radicalmente abusivo – è il tema del quale si parla (e non della ricerca di uno strumento per “fare cassa”), ritengo che la questione posta sia corretta (ed urgente) e non un (nuovo) attacco al territorio.
Errata è, semmai, l’idea di risolvere queste situazioni con un nuovo (sarebbe il quarto) condono edilizio. E questo per diverse ragioni, la prima delle quali è assai pragmatica: gli Uffici tecnici comunali non hanno ancora terminato di esaminare le domande di condono dei precedenti condoni, con procedimenti amministrativi che ingolfano la macchina amministrativa, con un patrimonio edilizio (quello interessato da tali risalenti se non “antiche” domande di sanatoria) che versa in uno stato di limbo ormai incancrenito.
Ciò che occorre – e che deve essere assolutamente messo all’ordine del giorno – è dunque una seria, ragionevole e strutturale riforma della disciplina edilizia, con il superamento del D.P.R. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia).
Testo unico oggi vigente all’interno del quale (diversamente da alcune legislazioni regionali “di buon senso”: a partire dalle soluzioni adottate da molti anni nella rossa Emilia-Romagna, con norme in sostanziale contrasto con quelle nazionali) sono presenti regole ispirate ad una rigidità non compatibile con situazioni di piccolo e medio cabotaggio ormai consolidate sul territorio che, lungi dall’essere represse dall’Amministrazione (impensabile che gli Uffici vadano ad ordinare il ripristino di modifiche di prospetto, parziali difformità di superficie, aree di sedime non corrispondenti, sagome difformi e simili), finiscono per ostare a quei processi di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, ormai non più procrastinabili.
Come detto, la via per risolvere questa miriade di “nodi gordiani” nel patrimonio edilizio non è quella di un ennesimo condono edilizio (buono a far cassa, ma non a creare ordine, come quasi sempre vale per le norme “straordinarie” ed eccezionali), bensì della revisione della legislazione edilizia: non è “aggressione del territorio” introdurre norme che consentano, da un lato, di tutelare posizioni consolidatesi negli anni anche tramite atti amministrativi susseguitisi nel tempo (parliamo spesso di immobili non regolarizzabili nonostante attestazioni di agibilità rilasciate dai Comuni dopo sopralluoghi, di difformità perfettamente in linea con la vigente normativa di Piano regolatore, non sanabili solo per l’assenza dell’originaria conformità urbanistica, così come di variazioni di sagoma o superficie che, se oltre il 2% rispetto alle misure di progetto, divengono veri e propri abusi, come detto, spesso non regolarizzabili) e, dall’altro, “aprire le porte”, alla condizione di legittimità urbanistico-edilizia essenziale per avviare interventi di efficientamento e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.
Di questa riforma sistematica – e non di nuovi inutili e caotici “condoni” – deve farsi carico la politica, ascoltando la voce degli operatori del settore e possibilmente sgombrando il campo del dibattito da facili ed accattivanti slogan (“facciamo un condono” versus “attacco al territorio”).
* avvocato amministrativista, co-founding partner Legal Team