di Nadia Aragona

Una torcia umana. Una donna brucia, i capelli che vanno a fuoco i vestiti attaccati alla pelle, le fiamme addosso dappertutto. Riesce a trascinarsi sotto la doccia e poi anche a chiamare una vicina… La sua colpa: aver salutato un altro uomo. Anna Elisa è morta dopo tre giorni di atroce agonia. I poveri sogni di questa donna sono bruciati con lei per mano dell’uomo che avrebbe dovuto proteggerla e amarla, come già accaduto tante volte. Un copione visto e rivisto.

La morte delle tante Anna Elisa sappiamo essere solo la punta dell’iceberg di un fenomeno sociale di proporzioni esagerate. Circa 4 omicidi di donne su 5 sono stati riconosciuti in sede giudiziaria come femminicidi. Ciò significa che queste donne non sono state uccise per motivi generici o casuali, bensì per una precisa e sottostante forma mentis patriarcale, con lo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico. In parole povere l’uomo considera la donna una sua proprietà.

Quando agli albori della nostra civiltà l’uomo divenuto pastore comprava la moglie (e i figli di questa, se ne aveva) che diveniva di “sua proprietà” segnava l’inizio della società patriarcale. Egli non aveva ancora consapevolezza del suo ruolo biologico nel concepimento, i figli erano i suoi perchè acquistati con la proprietà della moglie. Quindi era “padre” non perché generasse i suoi figli, ma perché ne era “proprietario”. E’ possibile che questo ruolo di “padrone” sia divenuto una sorta di comportamento atavico, radicato nel profondo? Che sia entrato nel DNA del maschio del genere umano? Se consideriamo che nella nostra legislazione il “delitto d’onore” viene abolito nel 1981, ci rendiamo conto di quanto recenti siano le rivendicazioni della parità di genere, in confronto ai diecimila anni di forma mentis patriarcale.

Non c’è quindi da stupirsi se l’uomo fatica a stare dietro ai cambiamenti d’identità delle donne e anche a voler rinunciare al ruolo di supremazia di cui ha goduto finora, specie se si aggiungono problematiche comportamentali e della personalità. Nonostante l’80% degli uomini non sia violento, c’è però un 12% violento a volte, e un 8% che è sempre violento.

Uno studio del 2003 (Edward, Scott, Yarvis et al.) ha messo in evidenza come tra coloro che avevano comportamenti violenti verso le donne, molti erano i soggetti affetti da un disturbo della personalità di tipo “borderline”, “narcisistico” e “antisociale”. E’ interessante elencare i tipi di violenza:

1) Impulsiva intenzionale (“perdo il lume della ragione: ho intenzione in quel momento di uccidere);

2) Impulsiva preterintenzionale (“Ho intenzione di fare del male ma non di uccidere);

3) Impulsiva di gruppo (“Con un gruppo di maschi, violentiamo una ragazza… poi lei muore”);

4) Da fallimento della grandiosità narcisista (“Come si permette di lasciarmi? per riaffermare il mio potere su di lei è devo farla fuori”);

5) Dolosa premeditata (“Ho un piano di assassinio per punirla perché mi ha lasciato);

6) Antisociale/Amorale (“Mi ha stufato, ho un’altra più giovane e più bella, la uccido e così sono libero”).

I disturbi della personalità non sono facilmente diagnosticabili. Sono uomini che al di fuori della famiglia sono considerate “normali”. Spesso hanno a loro volta storie di violenza familiare. In quasi tutti i femminicidi troviamo quindi dei fattori comuni: la preesistenza di un legame sentimentale tra il carnefice e la vittima, una storia pregressa di violenze domestiche, la decisione della donna di separarsi e l’incapacità dell’uomo di accettare la separazione. Anna Elisa e tutte le altre morte come lei hanno avuto la sfortuna di incontrare un uomo violento con dei disturbi della personalità, cresciuto in in contesto maschilista, che ha tolto loro la vita non riuscendo ad accettare la loro volontà di autodeterminazione. Nonostante questi tentativi di comprendere l’incomprensibile, mi chiedo sempre e ancora “perché?”.

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