Il Wti americano ha fatto un tuffo sopra i 95 dollari, il Brent che fa da riferimento per gli scambi europei è in zona 96 dollari e alcune qualità di greggio asiatiche si scambiano già a 100 dollari al barile. Diversi analisti e compagnie petroliferi vedono le quotazioni tra i 105 e i 110 dollari già nei prossimi mesi. Per ora Arabia Saudita e Russia sembrano aver vinto la loro scommessa fatta confermando i tagli alla produzione. Gli incrementi del prezzo più che compensano la diminuzione delle quantità venduta e gli incassi di Riad e Mosca salgono. Il petrolio russo, in teoria soggetto a un price cap di 60 dollari per effetto delle sanzioni occidentali, viene scambiato sopra gli 85 dollari. Oggi la spinta è arrivata dalla notizia di un calo delle scorte in un importante hub di stoccaggio americano in Oklahoma. Con un mercato nervoso basta poco per provocare scossoni.
“Tutto dipende dalle preoccupazioni per la ristrettezza dell’offerta che continua e addirittura si aggrava durante i mesi invernali dell’emisfero settentrionale”, ha detto Vandana Hari , fondatrice della società di consulenza Vanda Insights, intervistata da Bloomberg TV. “Il mercato è molto teso in questo momento, quasi sull’orlo del panico”, ha aggiunto l’esperta. All’inizio di questo mese, l’Opec prevedeva un deficit di greggio pari a 3 milioni di barili al giorno nel quarto trimestre. Ma con una domanda di Stati Uniti e Cina che si sta dimostrando resistente, molti indicano come inevitabili ulteriori rialzi delle quotazioni. Questa naturalmente è un problema per le banche centrali che cercano di contrastare l’inflazione. Petrolio caro significa carburanti costosi e, a cascata, un aumento dei costi di trasporto di qualsiasi bene e quindi dei prezzi finali, oltre che un incremento delle spese direttamente collegate all’energia.