In un’epoca in cui il vento soffia nella direzione di ridurre lo spazio del giudiziario e di assicurare ai colletti bianchi e agli evasori fiscali innumerevoli vie di fuga dal processo, dobbiamo accogliere con soddisfazione la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Regeni che ha riaperto la strada a un processo “storico” che, altrimenti, non si sarebbe potuto celebrare per l’ostruzionismo dello Stato egiziano interessato a proteggere i torturatori che hanno agito in suo nome e ad assicurarne la fuga dal processo.

Non si è trattato di una decisione facile perché la Corte si è dovuta misurare con l’esigenza di tutelare il principio supremo del contraddittorio a fronte delle insidie nascenti dalla sua strumentalizzazione attraverso l’abuso del diritto. Il contraddittorio è l’architrave del processo, senza contraddittorio non esiste processo penale, né sarebbe possibile operare un bilanciamento fra il diritto dell’imputato di venire a conoscenza del processo per esercitare la propria difesa con altri principi inerenti la tutela di beni pubblici di rilievo costituzionale, collegati all’obbligatorietà e all’efficienza del processo penale perché il diritto alla difesa è un diritto “inviolabile”.

La regolare instaurazione del contraddittorio è sempre stato uno dei punti di crisi del processo penale, soprattutto negli ordinamenti che consentono di celebrare il processo in contumacia dell’imputato. L’assenza dell’imputato dal processo impone di accertare con il massimo rigore che costui sia stato informato del processo e delle accuse a suo carico. Nel tempo si sono alternate diverse discipline processuali spinte dall’esigenza di assicurare la regolare instaurazione del contraddittorio nel caso di mancata partecipazione dell’imputato al processo. L’ultima riforma (il decreto legislativo 150/2022) ha rimodellato la disciplina del processo ispirandosi al principio che, per procedere in assenza dell’imputato, è necessario che esistano elementi idonei dai quali si possa trarre la certezza che questi sia effettivamente a conoscenza della pendenza del processo e che l’assenza sia dovuta a una sua scelta volontaria e consapevole. La nuova disciplina è stata modellata sulla falsariga della Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.

Il principio della effettività della conoscenza del processo incontra due deroghe, nel caso di latitanza e nel caso che l’imputato si sia volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo. Qui fa capolino il principio dell’abuso del diritto. Il contraddittorio non può essere strumentalizzato da chi volontariamente ne impedisce il dispiegamento al fine di sottrarsi al processo. La questione è stata oggetto di esame da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea che in una decisione del 19 maggio 2022 ha specificamente affrontato il tema dell’interpretazione della Direttiva 2016/343 nel caso di fuga dell’imputato dal processo. La Corte ha statuito che gli artt. 8 e 9 della direttiva 2016/343/UE devono essere interpretati nel senso che un imputato, che le autorità non sono riuscite a rintracciare, nonostante i loro ragionevoli sforzi, può essere oggetto di un processo in assenza. La regola generale, tuttavia, è che egli, al momento della notifica dell’eventuale condanna, deve avere il diritto a un nuovo processo o comunque a un rimedio giurisdizionale equivalente, in grado di consentire un nuovo esame del merito della causa.

Sembra essere questa la strada seguita dalla Corte Costituzionale che ha dato giustamente rilievo alla mancata collaborazione dello Stato estero che ha impedito la regolare notifica dell’atto di citazione a giudizio rifiutandosi di fornire gli indirizzi degli imputati, notoriamente a conoscenza del processo e delle accuse formulate a loro carico. La Corte, infatti, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa”.

Si potrà obiettare che nelle condizioni date è impossibile che i torturatori egiziani assassini siano assicurati alla giustizia, tuttavia quello che conta, in questi casi, non è la possibilità concreta di eseguire la pena eventualmente irrogata, ma il diritto delle parti e del pubblico a conoscere la verità. L’importanza del diritto alla verità è stato ben evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in innumerevoli pronunzie che hanno messo in rilievo l’importanza dell’accertamento della verità nei casi di gravi violazioni dei diritti umani e l’obbligo degli Stati di tutelare attraverso il processo penale il diritto alla vita e il divieto di tortura. Pertanto, nello spazio del giusto processo, ai sensi dell’art. 6 CEDU e 111 Cost., convergono il diritto delle vittime ad avere un processo ed il diritto dell’imputato ad essere informato delle accuse e a partecipare al procedimento a suo carico. È ben vero che il diritto al processo delle vittime deve essere coniugato col diritto al contraddittorio, tuttavia il diritto alla verità ed alla giustizia non può e non deve più essere paralizzato da condotte elusive dell’imputato, ispirate all’abuso del diritto. Questo non è più consentito alla luce della sentenza della Corte Costituzionale sul caso Regeni.

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