Che l’Italia non sia un paese per giovani è risaputo, che non lo sia neanche per i giovani medici probabilmente è risaputo solo dagli addetti ai lavori.

In Italia, ormai da anni, assistiamo ad una “cinesizzazione” del lavoro, tra cui anche quello medico, intendendo con ciò l’adattamento di una comunità ai modelli politici, economici e sociali della Cina che non brilla certo per la difesa e la valorizzazione dei diritti dei lavoratori. Per dire no allo sfruttamento, che si concretizza in salari bassi, in turni massacranti, in condizione di continuo burnout, i giovani medici sono scesi in piazza il 25 settembre scorso manifestando davanti al Miur; la loro è un’iniziativa che va sostenuta ulteriormente per difendere, rilanciare e potenziare il nostro SSN.

Hanno fatto richieste ovvie come quella di essere inquadrati come professionisti e non come studenti e che le loro competenze vengano certificate. Nei policlinici universitari reggono da soli interi reparti anche con turni di 70-80 ore a settimana, compresi notturni e festivi. Sono destinatari di ordini di servizio e hanno le stesse responsabilità medico legali degli strutturati. Spesso, se l’utenza può continuare ad usufruire di servizi specialistici, che si contraggono sempre più sul territorio per mancanza di medici, è grazie a loro. Hanno chiesto di avere contratti formazione-lavoro e di potersi formare anche nei reparti ospedalieri. Hanno chiesto l’ovvio. Ma si sa, nel nostro Paese dire ovvietà desta scalpore.

Bisognerebbe ritornare alla figura del medico assistente in formazione, come esisteva una volta in Italia e come esiste oggi in Svizzera, che consentirebbe agli specializzandi, che sono circa 25.000, di essere assunti anche in ospedale per sopperire alle carenze di medici ospedalieri, rafforzando innanzitutto i Pronto Soccorso, i dipartimenti di Emergenza-Urgenza, in grande sofferenza per la mancanza di personale e le specializzazioni ospedaliere a più alta intensità di lavoro. Chiaramente con contratti decenti e valorizzanti, altrimenti continueremo ad assistere all’esodo dei nostri medici, la cui formazione è costata circa 150.000 mila euro alla comunità, verso i paesi del Nord Europa prima e degli Emirati Arabi poi.

Ad ogni medico in meno corrisponde un servizio in meno alla cittadinanza. E i cittadini se ne stanno rendendo conto: interi paesi senza medici di famiglia, liste d’attesa infinite che si sono tradotte in 37 miliardi di spesa sanitaria out of pocket per chi ha potuto attingere alle proprie risorse personali per curarsi. Chi non ha potuto ha dovuto rinunciato, semplicemente. E questo non ha risparmiato nessuno, neanche i soggetti più fragili compresi i bambini e gli adolescenti. Dico questo pensando ai servizi di neuropsichiatria infantile ridotti drasticamente in tutto il paese, riduzione che ha lasciato in balia del nulla interi nuclei familiari e piccoli pazienti senza diagnosi.

In questi anni è mancata una programmazione decente del fabbisogno di personale sanitario in relazione alla tipologia di popolazione da assistere e ciò, unito alla cura dimagrante a cui è stato sottoposto il nostro Servizio Sanitario Nazionale da vent’anni a questa parte, ne ha minato alla radice l’universalismo, l’equità e l’accessibilità. Occorrerebbe investire sul SSN circa 10 miliardi all’anno per 5 anni per recuperare le performance del periodo pre-Covid e colmare il gap con gli altri paesi europei. Però le priorità in questo momento sono altre, come la corsa agli armamenti, il ponte sullo stretto, l’evasione per necessità. Ma questa è un’altra storia.

La protesta dei giovani medici è un grido di dolore che va raccolto se vogliamo rilanciare il SSN e difenderne quel che resta.

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