L’approvazione della Nadef da parte del Governo non ha riservato grandi sorprese per gli osservatori attenti. Si sapeva già da tempo, anche prima delle elezioni di settembre 2022, che le risorse economiche erano piuttosto magre. Nonostante ciò, ha stupito la baldanza del ministro Giorgetti che propone al Parlamento un forte indebitamento, del 4,3% del Pil ben superiore al limite del 3% previsto implicitamente anche dalla nostra Costituzione all’art. 81.

L’aumento dell’indebitamento servirà per dare un po’ di benzina, 14 miliardi, alla manovra economica del governo. In un certo senso, il sovranismo economico ha battuto un colpo e ha già avanzato la sua idea di come rivedere il patto di stabilità. La traiettoria verso la discesa del debito viene così interrotta bruscamente. Il debito passa dal 140,2% del Pil di quest’anno al 140,1% per il 2024, con una riduzione quindi nulla. La luce rossa dello spread, balzato a quota 195 punti base, si è già accesa. Vedremo se la Commissione europea chiuderà un occhio, oppure se si comporterà con la stessa severità che ha avuto nel bacchettare il governo Conte I.

La storia è appena cominciata, anche se piuttosto goffamente da parte del nostro governo che ha lanciato una ridicola sfida, a dire il vero. Ma almeno il nuovo extra-deficit che si preannuncia sarà utile all’economia italiana? I dubbi sono molti perché pare che quasi metà della manovra, in disavanzo, sarà assorbita da un unico provvedimento, la conferma della fiscalizzazione degli oneri sociali dei lavoratori dipendenti con redditi-medio bassi prevista originariamente solo per il 2023.

Questa riduzione delle tasse per i lavoratori dipendenti a carico dello stato, usata anche da altri governi ma con molta prudenza, non è una buona mossa di politica economica e andrebbe rivista, o almeno ridimensionata, per tre motivi. Il primo, abbastanza ovvio, è che va ad aumentare il debito pubblico, e in particolare quello dell’Inps poi scaricato sulla finanza generale. Finanziare le spese correnti indebitandosi non è una buona pratica nell’economia familiare, come pure in quella statale. Se si continua in questo modo a fine legislatura il debito pubblico solo per questa via sarà aumentato di 50 miliardi, un buco gemello almeno pari a quello del super bonus edilizio, al netto delle entrate, che tanto scalpore indignato ha suscitato a destra. Ma evidentemente i buchi di bilancio non sono tutti eguali e vanno bene solo quelli creati in proprio.

Il secondo motivo è altrettanto rilevante, anche se tende a nascondersi. Poiché i contributi non versati, ma goduti ora, saranno riconosciuti per la pensione futura, il disavanzo raddoppia. Fra qualche anno qualcuno dovrà tirar fuori i soldi dei contributi oggi non versati. Si sta creando quindi un debito occulto che gli studiosi chiamano un’illusione fiscale, perché consiste sostanzialmente nel sottostimare le uscite. Proprio la tanto invocata responsabilità e serietà fiscale ribadita dal ministro Giorgetti dovrebbe mettere in guarda contro questa manipolazione occulta, e per questo ancora più pericolosa, dei conti pubblici.

Il terzo motivo non riguarda i conti pubblici ma la nostra competitività. Un tempo gli imprenditori chiedevano la riduzione dei contributi sociali per abbassare il costo del lavoro, e quindi favorire la competitività internazionale delle imprese italiane. Ma ormai quest’idea è acqua passata. A causa dei bassi salari le mostre merci sono oggi ultra competitive in Europa e nel mondo. La bilancia commerciale italiana, senza tener conto della posta energetica, ha registrato nel 2022 un avanzo di 80 miliardi, era di 88 miliardi nell’anno precedente ma di appena 56 miliardi nel 2019. Non vi è dubbio che le imprese italiane siano protagoniste in Europa di un dumping salariale causato dall’inflazione che gonfia i profitti a scapito dei redditi da lavoro fermi da anni.

Se vi sono molte ragioni per non trasformare un provvedimento nato come esigenza straordinaria in ordinario, perché il governo, spinto soprattutto da Forza Italia, si muove in questa direzione? Propongo due interpretazioni, La prima riguarda l’iper-populismo economico che affligge questo governo che a settembre 2022 ha vinto le elezioni sulla base di impossibili promesse elettorali. Ora è chiamato a rispettarle e si è inventato il salario di stato, che, tra le altre cose, costa il doppio del reddito di cittadinanza. A suo tempo era stato molto più corretto Renzi che almeno con il suo bonus fiscale non aveva compromesso i conti dell’Inps. Quando Meloni dice che il governo “non insegue il consenso” non si accorge che il suo naso si sta allungando a dismisura come nel noto racconto di Collodi.

In secondo luogo, in questo modo il governo conservatore accontenta il presidente di Confindustria che ha fatto di questa proposta il senso del suo progetto di politica industriale. In altri tempi, i temi della politica industriale erano completamente differenti e riguardavano l’innovazione, il cambiamento tecnologico, la spinta alla concorrenza, la lotta all’evasione dell’Iva e così via. Tutti argomenti sostanziosi che riguardavano non la finanza pubblica, ma la gestione industriale ed imprenditoriale. Ora pare che i problemi dell’economia italiana possano essere risolti magicamente aumentando i salari a spese dello stato. Pare improbabile però che il declino industriale italiano, ampiamente documentato, possa essere evitato con lo stipendio di stato. Gli altri paesi si stanno muovendo rapidamente dirigendo importanti risorse pubbliche e private verso gli investimenti necessari per affrontare le sfide future, in primis energetiche ed industriali.

La Confindustria nostrana e il governo guardano nello specchietto retrovisore dell’assistenzialismo fiscale per imprese e lavoratori. Nel 2001 il Pil pro capite italiano superava quello medio dell’Unione Europea del 19%, nel 2019 era inferiore del 6% e non si intravedono, purtroppo, segnali di un cambiamento di direzione né dalla politica e nemmeno dagli imprenditori.

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