Sono le piccole storie a fare la Grande Storia: l’Histoire événementielle direbbero i francesi, o Braudel, gli storici delle Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre, intellettuali attenti a ricostruite un passato nel quale non scompaiono gli umili, il mondo del lavoro, gli oppressi di ogni epoca, le loro aspirazioni alla libertà.

Se il valore di uno scrittore si misura anche in base alla capacità di entrare in risonanza con la gente comune, di descrivere non solo grandi uomini, dittatori, generali, capi di stato, gerarchi e politici, ecco un romanzo da leggere. All’immenso patrimonio emotivo e biografico degli operai e degli oppressi (le classi subalterne, si diceva un tempo) attinge con felicità di scrittura Marco Cassardo, donandoci Eravamo immortali (Mondadori), romanzo che è una gemma, nella povertà espressiva, simbolica e politica dell’ombelicale narrativa contemporanea.

Eravamo immortali racconta la storia più recente d’Italia – dal 1939 al Duemila – attraverso un’amicizia lunga sessant’anni: quella fra Steu e Nando, ciclisti torinesi che attraversano il tempo pedalando costantemente sui tornanti dell’amore-odio-amore: nella filigrana della fratellanza agonistica emergono i sentimenti di una generazione, sintetizzabili attraverso le grandi partizioni del romanzo che Cassardo ha chiamato Furore, Tormento, Orgoglio e infine Eclissi, destino che accomuna tutti e che spesso dimentichiamo.

La gioventù, si sa, nel furore della vita, dell’ideologia (prima) e del consumismo (ora) si vede immortale (ecco il titolo, ed è un bene, per molti aspetti), sogna di cambiare il mondo attraversando spavaldamente la vita.

Nel ricordo dei genitori – Steu è liberamente modellato sulla figura del padre dell’autore, appassionato di ciclismo – rivivono così la Seconda guerra mondiale e la ritirata di Russia, i bombardamenti su Torino e la Resistenza, il dopoguerra, la Fiat, il ‘68 e gli Anni di piombo, il corteo dei quadri che frantumò il movimento operaio, Mani Pulite e la seconda Repubblica, la tragedia dello Statuto e il crollo delle ideologie. Infine il disincanto dei nostri padri per un mondo che non è certo migliore di quello che avevano sperato in tanti, ma per il quale pochi hanno concretamente lottato fino alla fine.

Il protagonista alla fine se ne va con un’ultima pedalata sul fiume, commovente metafora dell’addio.

Di Marco Cassardo ho sempre apprezzato la schiettezza e la chiarezza espressiva, dote ormai rara fra gli scrittori e gli intellettuali, presente ad esempio in Gianni Vattimo, maestro di pensiero recentemente scomparso. Con Marco condivido la torinesità e l’estrazione familiare operaia, popolare, la passione per il calcio e per il Toro, con quello che significa nei suoi risvolti sociali, economici e culturali. Tifare Torino è per noi una Weltanschauung, è un modo di vedere il mondo in direzione ostinata e contraria, è un simbolico opporsi alla “razza padrona”.

Noi, sotto la basilica di Superga, siamo “Belli e dannati” – uno dei primi libri di Cassardo ha questo titolo, ed è una pietra miliare nella cultura granata – abbiamo un imprinting di solidità e resilienza, di fede nei valori dello sport. Siamo dannati, appunto e lo sappiamo. La tragedia greca nasce proprio da questa consapevolezza.

Eravamo immortali nasce da un grande lavoro di documentazione: “Ho impiegato cinque anni a scriverlo” dice Cassardo, ma occorre una vita, dico io, a concepirlo, a maturare emozioni, valori, esperienze da trasformare in frasi e in pagine come queste. Si parva licet ne so qualcosa, con il romanzo storico La cavalcata selvaggia; il racconto della ritirata di Russia di Cassardo ricorda il mio padrino Berto, cui La cavalcata selvaggia è dedicato. Anche lui, come il padre di Marco, nulla raccontò delle atrocità viste. Berto citava le sciabole dei cosacchi che calavano sulle colonne italiane, cariche di neve. “Steu” ricordava soltanto i sobbalzi dei camion che trasportavano i soldati, provocati non da dossi o dalle buche ma dai cadaveri sotto il ghiaccio.

Eravamo immortali è una dichiarazione d’amore per la vita, è nostòs per i genitori, per gli amici, per la giovinezza e per tutto quanto ci sfugge. Tutto, appunto. È una carezza a Torino, al Toro e al popolo, alle vite di Barriera. Di Nizza, in questo caso, perché dire “a Barriera” è ridicolo, ce n’erano parecchie, non solo la Barriera di Milano.

Eravamo immortali è un omaggio alle classi popolari, in nome delle quali molti soi-disant intellettuali, oggi, si sciacquano la bocca ma dalle quali restano lontani anni luce (e dire che Pavese, citato nell’exergo del romanzo, non raccomandò di essere vicini al popolo, ma di essere popolo).

Il romanzo di Cassardo non è un saggio, non è solo un romanzo storico, non soltanto romanzo d’amore o di formazione (Bildungsroman, in tedesco, racconto del percorsi dalla giovinezza all’età adulta, fiorito anche in Francia con Rousseau e in Inghilterra con Dickens). Non trancia giudizi ma vuole rendere giustizia a una stagione immortale, la giovinezza dei nostri padri che diedero il sangue contro nazisti e fascisti – non li combatterono sui social.

Nello svanire delle ideologie, emerge in queste pagine il trionfare dei sentimenti, di una dimensione – il ricordo, la storia personale – con la quale tutti faranno i conti, prima o poi. Faremo i conti, invecchiando, con la nostalgia di quando la vita era intatta, gonfia di speranze. Tanto più nel disincanto di oggi, che dimostra quanto la Storia sia un’ottima maestra, con pessimi allievi.

Eravamo immortali è un romanzo su di noi, sugli uomini e sulle donne alla ricerca di se stessi, del loro posto nel mondo.

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