Quello che altrimenti verrebbe definito scafista minorenne (o magari “sedicente minore”) è diventato un eroe. Parlo di Seydou, protagonista di Io capitano. L’attenzione a questo film è concentrata sul rapporto tra la storia narrata, l’etica e le narrazioni dominanti sull’immigrazione “illegale”. Ma c’è un aspetto del quale mi pare sinora non si sia parlato (o almeno, io non me ne sono accorto): cosa significa questo film per chi il viaggio terribile attraverso la Libia lo ha vissuto. Per il potenziale pubblico costituito dalle ormai centinaia di migliaia di persone (di giovani) che sono arrivate in Italia, in Europa, con un viaggio come quello di Seydou e Mussa.

Quando ho pensato per la prima volta di invitare qualcuno dei nostri Ecomori (associazione Eco dalle Città, Torino) a vedere il film, qualcuno mi ha fatto presente che non hanno voglia di ricordare i tormenti vissuti in Libia. In effetti ne abbiamo parlato poco in questi anni, e ancora meno qualcuno di loro ha mai preso l’iniziativa di parlarne. Rischiavo un fallimento, un rifiuto, o che qualcuno se ne andasse a metà film. Comunque l’appuntamento l’abbiamo preso. L’incoraggiamento decisivo me l’ha dato un ragazzo senegalese, Bubacar Dieng: “L’ho già visto ma se andate in gruppo, ci vengo di nuovo”. Aveva notato la notizia del film in qualche social. Ti ha fatto star male vedere il film? Sì. E perché tornarci? “Mi è piaciuto molto, perché racconta la mia storia e quella di tanti miei compagni”.

Nel suo caso la cosa è particolarmente vera, perché ha viaggiato sedicenne dal Senegal insieme all’amico diciassettenne. Al cinema i sei africani (di cui una ragazza) venuti con noi erano ovviamente attentissimi. Ma a un certo punto il più giovane, un somalo, si è messo a videochattare. Ho pensato: “Ecco, è andata male, magari non capisce né audio né sottotitoli, è con la testa altrove”. Invece Saki stava facendo vedere alcune immagini del film a un amico lontano. Mi ha spiegato che è l’amico con cui ha viaggiato dalla Somalia alla Libia. Separati dalla barca, l’amico ora vive a Malta. Ha voluto mostrargli via smartphone che stava vedendo un film sulla loro esperienza. All’uscita dal cinema tutti e sei avevano voglia di parlare, avevano qualcosa da dire.

Mi rendo conto che l’argomento è delicato, e che non so cosa ne pensino gli specialisti dei vari disturbi post traumatici. Ma avanzo l’ipotesi che il film di Garrone abbia indovinato il mix tra crudezza e fiaba moderna, quello giusto proprio per questo pubblico: per coinvolgerli, per restituire verità, dignità, importanza a quello che hanno sofferto. Si è detto che questo film dovrebbe essere proiettato nelle scuole. Sì, ma anche dovrebbe essere proposto a chi in questi ormai dieci anni ha percorso il calvario libico. Ci vuole rispetto per i traumi e le fragilità, ma non dovremmo, non dovrebbero, rimuovere le violenze subite.

Ogni tanto mi capita di vagheggiare un tribunale internazionale che individua e condanna i sequestratori torturatori e aguzzini libici. E di vagheggiare che ciascuno dei nostri nuovi concittadini (pardon, solo coabitanti nel nostro paese) porti la sua testimonianza e in questo modo si liberi di un peso. Io Capitano forse ha un po’ questo effetto, forse si dice catartico. Contribuisce a creare un pezzo di quella coscienza e di quella, auspico, presenza politica che ancora mancano in quelli che sono già attualmente i nostri (sì, i nostri, in Italia) giovani.

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