Bologna, 9 agosto 1944. I partigiani liberano dal carcere di San Giovanni in Monte i compagni prigionieri. E per creare confusione aprono le celle anche ai detenuti comuni. Paolo, un ragazzo finito in galera per un piccolo furto, si ritrova libero e poi sull’Appennino bolognese tra i partigiani della Stella Rossa. Entra a far parte della Brigata: conosce il Vecchio, si azzuffa con Gallo, che poi diventerà il suo migliore amico, assaggia la disciplina imposta dal mitico comandante Lupo e, soprattutto, incontra Elena, la ragazza di cui si innamorerà. Ed è a partire dalla storia d’amore tra Paolo ed Elena che Claudio Bolognini scrive Stella Rossa (Red Star editore, 224 pagg., 16 euro): un omaggio all’incredibile ma vera storia di una banda partigiana capace di tener testa all’esercito nazista e ai suoi sgherri fascisti. Ma anche destinata a subire l’eccidio di Monte Sole: 770 morti, tra cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne. Il massacro, conosciuto comestrage di Marzabotto, perpetrato dai nazisti in 115 luoghi diversi nel territorio degli attuali comuni di Marzabotto, Monzuno e GrizzanaMorandi, che resta uno dei crimini più efferati di tutta la Seconda guerra mondiale commesso ai danni della popolazione civile. Ilfattoquotidiano.it pubblica qui un’anticipazione del libro.
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Elena si svegliò di soprassalto nell’alba di Cadotto. Un sussulto improvviso, senza motivo apparente. Dopo l’amore si era assopita e fino a quel momento aveva dormito serena. Le ultime ombre della notte aleggiavano nel fienile. Paolo dormiva accanto a lei, girato sul fianco sinistro. Pareva un bambino raggomitolato, a vederlo così non sembrava nemmeno la stessa persona di poche ore prima.
Elena si era svegliata con una sensazione d’inquietudine. Ripensò ai baci e alle carezze, ma quelle emozioni parevano non appartenerle, quasi le avesse vissute un’altra donna. Non si chiese il perché, cercò di ripensare a Paolo che la baciava con passione e tenerezza. Si alzò piano. Ricompose il vestito attorno al seno e sui fianchi, si scrollò dal fieno rassettandosi i capelli e sfilò uno stelo, che mise in bocca.
Le era sempre piaciuto il sapore del fieno. Da bambina lo assaporava per cercare di avvertire la sensazione che provavano le mucche, un sapore speziato e dolciastro che diventava amarognolo, le ricordava il latte appena munto. Salì i gradini della scala di legno appoggiata al muro del fienile e si affacciò al finestrone. L’aria fredda le sferzò il viso. Pioveva fitto, una pioggia decisa che cadeva dritta. Le prime luci dell’alba non riuscivano a farsi largo tra la nebbia. Elena inspirò l’odore della terra bagnata, quante volte aveva assaporato quel profumo.
Si riordinò i capelli tenendo una forcina tra le labbra, quel gesto che le donne sono abili a concedersi, pur se affaccendate. A un tratto, lontano nella nebbia, intravide muoversi qualcosa, come
un enorme cespuglio avanzare lungo il pendio. La sensazione d’inquietudine si bloccò alla bocca dello stomaco. Strinse gli occhi per mettere a fuoco ma non riusciva a distinguere bene. Si sporse dal finestrone per vedere meglio. Erano tute mimetiche.
Tedeschi in tuta mimetica risalivano il crinale, erano arrivati a poche centinaia di metri dal fienile. Dallo stomaco, il groppo le salì in gola bloccandole il respiro. Ricordò di aver sentito parlare di truppe tedesche mai viste prima. Si raccontava che sulle mostrine avessero una sorta di numero 44 sghembo e un teschio come emblema. Si voltò di scatto: dalla sua sinistra proveniva un chiarore. Si stropicciò gli occhi. Il bagliore tra la nebbia si stava allargando e altri provenivano dalla zona del casolare dove si erano rifugiati i genitori.
«I tedeschi!». Paolo aprì gli occhi smarrito. «Dai l’allarme, io corro dai miei!». In due balzi, Elena uscì all’aperto e corse verso il bosco. Paolo si alzò in piedi, afferrò il moschetto e infilò la Luger nella cintura. Fuori rimbombavano i primi spari. Vide un partigiano stramazzare a terra davanti alla stalla. Ritornò indietro e uscì dall’altra parte. Un gruppo di tedeschi stava risalendo anche da quel versante.
«Fermo!». Paolo continuò la corsa ma scivolò nel fango, una raffica di maschinen-pistolen gli fischiò sopra la testa. Restò immobile a terra. Era l’unica scelta per non essere colpito dalle raffiche.
Con la coda dell’occhio vide i tedeschi dirigersi verso il casolare. Il Lupo e gli altri rispondevano al fuoco da dietro le finestre. Le pallottole fischiavano e le raffiche delle mitragliatrici tedesche
duellavano con i moschetti e gli Sten dei partigiani. Sapeva che presto avrebbero tentato di farsi largo allo scoperto. Strinse forte il moschetto e iniziò a strisciare verso la boscaglia. Si tolse gli scarponi per non sprofondare nel fango ed essere più libero nella corsa, come gli aveva insegnato Jock. Attese qualche istante, fece un respiro profondo e si alzò di scatto. Si lanciò verso il bosco inoltrandosi per centinaia di metri e si arrampicò sopra un castagno, trovando riparo come quando sfuggì ai fascisti a Monzuno.
Ripensò a quella voce che urlava Fermo: non pareva avesse l’accento tedesco. Rimase immobile tra le fronde bagnate, in lontananza si udivano gli spari e le grida. «La squadra d’azione!» tuonò il Lupo. Poi incenerì i suoi uomini con uno sguardo. La sentinella avrebbe dovuto dare l’allarme e permettere alla squadra d’azione d’intervenire. Il partigiano di guardia deve restare almeno duecento metri dal rifugio dei compagni per avvisarli in caso di attacco. Quella notte, invece, la sentinella era rimasta al riparo sotto la tettoia, troppo vicino al casolare, e non era riuscita a dare l’allarme per tempo. Gianni fulminò il partigiano che tormentava il grilletto del moschetto, non era però il momento di discutere. Si appostarono dietro le finestre con le armi in pugno. I tedeschi avevano circondato il casolare e le pallottole esplodevano dappertutto.
Decisero di tentare una sortita per rompere l’accerchiamento. Si dovevano dividere, come avevano previsto spesso di fare in simili frangenti. Si prepararono a schizzare fuori per cogliere i
tedeschi di sorpresa. Mai fuggire dalla stessa parte era il comandamento del partigiano guerrigliero quando veniva attaccato. Si guardarono negli occhi un ultimo istante, poi il Lupo diede
il via. Gianni e gli altri uscirono dal lato destro del casolare, il Lupo si gettò dalla parte opposta.
I tedeschi rimasero disorientati un paio di secondi, ma poi fecero fuoco a ripetizione. Colpirono Gianni a un braccio, poi al piede sinistro e di striscio anche all’altro braccio, ma lui riuscì a trascinarsi lungo il pendio e a portarsi fuori tiro. Dall’interno della stalla i partigiani continuavano a far fuoco per coprire la sortita. Il Lupo cercò di raggiungere un avvallamento e trovare riparo. I tedeschi sparavano proiettili traccianti sul fienile, che prese subito fuoco creando un bagliore tetro. La nebbia galleggiava a mezza altezza, grandi banchi costeggiavano le radure e la pioggia non cessava di cadere. Il Lupo stava per raggiungere un piccolo crepaccio. Voleva prendere posizione per ricaricare le armi, ma da quell’istante sparì alla vista di tutti.
Gli spari rimbombavano tra il casolare, la stalla e il fienile. Tèvi e Colonnello erano asserragliati nella stalla con altri partigiani e rispondevano al fuoco dei tedeschi. Le bestie guaivano ferite e i gemiti riecheggiavano tra le raffiche di mitra e l’esplosione delle granate. I partigiani tentarono di mettersi in salvo raggiungendo il fienile, ma appena entrati le travi del soffitto iniziarono a cedere e i tizzoni incendiati cadevano ovunque. Fuori grandinavano le pallottole. Raggiunsero di nuovo la stalla attraverso una botola interna. Le bestie spezzarono le cavezze e scapparono fuori, terrorizzate. I civili erano asserragliati nel casolare. Da dietro le finestre ai piani superiori, assistevano impotenti all’evolversi della battaglia. Una bambina era capitata nella stalla, aveva un golfino rosso legato alla cinta e chiamava la mamma che era bloccata nel casolare.
D’un tratto la bambina schizzò fuori urlando: Colonnello cercò di trattenerla per non farla finire sotto il fuoco dei tedeschi, ma gli restò tra le mani solo il golfino. La bambina giunse di corsa sull’aia. Il corpicino cadde a terra crivellato da una raffica di colpi.