La narrazione retorica di De Laurentiis “cattivo comunicatore”, già affrontata su questo blog, si manifesta anche in un altro mantra, ritornato in auge in queste ultime settimane: “È bravo, ma è antipatico”. Si tratta del giudizio più gentile che i detrattori esprimono quando, di fronte alla efficienza manageriale e imprenditoriale del presidente, si trovano con le spalle al muro per mancanza di altri elementi di contestazione e non sanno cosa dire.

A me verrebbe da rispondere: “E chi se ne frega se è antipatico!”. L’importante è che sia efficiente: nessun imprenditore ha mai avuto un consenso bulgaro dai suoi stakeholder (compreso i giornalisti e i dipendenti) perché un capo, un manager, per esprimere la sua leadership deve spesso dire dei “no”. E le negazioni, i rifiuti non piacciono a nessuno ma spesso, in una gestione aziendale, sono necessari. Ci sarà sempre qualcuno a cui starai antipatico.

Ai capi non si deve voler bene, i capi devono essere stimati. Una cosa ben diversa che emerge in maniera netta nelle interviste realizzate per il mio libro “A scuola da De Laurentiis” (Edizioni Ultra) a ex-dipendenti (calciatori, allenatori, dirigenti) dell’azienda Napoli, molti dei quali anche licenziati dal presidente.

Perché questa premessa? Perché nelle ultime settimane, dopo che per mesi in molti erano saliti sul carro del vincitore, in tanti sono di nuovo ritornati sulle loro posizioni che molto spesso giudicano ma non valutano l’operato del presidente. Nel mondo degli affari (e il calcio è tra le prime dieci aziende del paese per fatturato) non si giudica ma si valuta, e la differenza non consiste in una sfumatura lessicale. Certamente nel business il merito è riconosciuto, premiato e reso evidente a tutta l’organizzazione (immaginiamo una promozione), e per certi aspetti al contesto in cui opera (pensate agli utili realizzati da un’azienda che pubblica il suo bilancio). Quel merito viene riconosciuto attraverso una valutazione delle performance.

Se però date uno sguardo alla sfilza di commenti che viaggiano sui social, compresi i vostri, scoprirete che sono legati quasi sempre da un filo rosso: non la valutazione dei risultati, ma il giudizio sull’uomo. Facile, veloce, spietato. Senza attenuanti. Senza guardarsi dentro. Senza avere neanche il tempo di approfondire, attraverso l’uso puro della ragione, non tanto i valori dell’altro quanto le proprie ragioni. Forse perché, come sosteneva Jung, pensare costa tempo e fatica. E comporta sicuramente l’attraversamento di ripide montagne fatte di riflessioni e di dubbi. Giudicare invece è un attimo, ma non porta lontano.

È vero che l’ideale sarebbe riuscire a non giudicare. Ma se proprio ci si sente autorizzati a farlo, mi sembra necessario avere quanto meno tutti gli elementi possibili. In fondo anche chi giudica di mestiere (un magistrato) non lo fa senza aver studiato in modo approfondito la situazione, con tutte le attenuanti, le aggravanti, le prove a favore e a sfavore e così via.

Siccome, però, è praticamente impossibile vivere la vita di un’altra persona, non possiamo comprendere perfettamente tutto ciò che ha provato nelle varie esperienze che ha vissuto, non possiamo vedere la vita esattamente dal suo punto di vista, ma soltanto provare a comprenderla. Per questo si dice “non giudicare”: in verità non dobbiamo farlo, semplicemente perché non siamo in grado di farlo.

Io non conosco personalmente Aurelio De Laurentiis, mi ha solo telefonato nel giugno scorso (10 minuti) per farmi i complimenti per il libro, ragion per cui non troverete mai una mia sola opinione sull’uomo e sui suoi valori. E spero, semmai dovessi incontrarlo, di continuare a evitare commenti sulla persona. Quello del giudizio è uno sport in cui molti diventano fuoriclasse dopo pochi allenamenti. Invece sono abituato a valutare prestazioni e potenziali professionali, di solito identificati in numeri e indici.

Ma, è inutile nasconderlo, anche la valutazione è sempre un fatto soggettivo, cioè influenzato dalle caratteristiche individuali del valutatore. Diventa quindi importante limitare il più possibile le probabilità di sbagliare.

Perché possiamo incorrere in alcuni degli errori più frequenti del processo di valutazione: essere influenzati dalle impressioni (considerazioni valutative complessive generalmente basate sull’ultima scena del film), dai sentimenti personali (simpatia, antipatia, ecc.), dai pregiudizi e dagli stereotipi (riferiti normalmente ad arbitrarie “categorie” di appartenenza, per esempio: i calvi sono intelligenti, le persone del Nord soffrono il caldo, le persone del Sud soffrono il freddo) e soprattutto i precedenti (quando si tende a conservare al valutato la valutazione attribuita in precedenza, anche in contesti del tutto diversi).

Un invito soprattutto a chi per mestiere o status ha una amplificata cassa di risonanza.

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