Società

Giornata internazionale della nonviolenza: l’Italia non ha mai preso sul serio la sensibilizzazione

Il 2 ottobre, anniversario della nascita di Mohandas K. Gandhi, è stato dichiarato dall’Assemblea generale dell’ONU Giornata internazionale della nonviolenza, con una risoluzione (n. 61/271 del 15 giugno 2007) nella quale si chiede a tutti gli Stati membri di “divulgare il messaggio della nonviolenza, soprattutto attraverso azioni di educazione e sensibilizzazione“. Il nostro Paese non ha mai preso sul serio questo impegno, nonostante il tema della nonviolenza sia insito nella sua Costituzione, a partire dal ripudio del mezzo della guerra per risolvere i conflitti (art.11) e dal riconoscimento della difesa non armata e nonviolenta nel suo ordinamento (art. 52) secondo le sentenze della Corte costituzionale (a partire dalla n. 64/1985 sul servizio civile e leggi conseguenti), non impegnandosi in nessun programma specifico, diffuso ed intenzionale, di educazione alla nonviolenza. Neanche all’interno dell’insegnamento dell’educazione civica.

Tuttavia, che i conflitti interpersonali non si risolvano con la violenza, ossia con la soppressione dell’altro, sul piano delle relazioni interpersonali sembra essere nel nostro Paese un apprendimento in via di progressiva acquisizione, come evidenziato dal calo costante degli omicidi dagli anni ‘90 del ‘900 ai giorni nostri, registrato anno dopo anno dal Ministero degli Interni: nel 1991 gli omicidi volontari in Italia hanno raggiunto il picco di quasi 2.000 nell’anno, mentre trent’anni dopo, nel 2021 se ne sono registrati 295 e nel 2022, 309 (compresi i femminicidi); analogo calo statistico hanno subito tutti i reati violenti. Nonostante le periodiche campagne politico-mediatiche sui cosiddetti “allarmi sicurezza”, i dati sostanzialmente ci dicono che i sistemi educativo, giudiziario e culturale che, complessivamente e concordemente, mirano ad estirpare la violenza dai rapporti interpersonali stanno man mano raggiungendo il loro effetto, facendo di fatto del nostro Paese uno dei più sicuri al mondo.

Al contrario, c’è una netta censura culturale rispetto alla possibilità – e al relativo impegno – di immaginare e formare parallelamente alla gestione nonviolenta anche dei conflitti internazionali, rispetto ai quali la violenza della guerra rimane sostanzialmente, e sempre di più, l’unica opzione e narrazione in campo. Con un effetto di grave dissociazione culturale tra ciò che è vietato e stigmatizzato sul piano delle relazioni interpersonali e ciò che, invece, è ammesso e preparato nelle relazioni internazionali. Si tratta del meccanismo di “etificazione della violenza”, messo a fuoco dalla filosofa Judith Butler (Critica della violenza etica, 2006) e ripreso recentemente in Italia del sociologo Carlo Bordoni (Furor. Quando la violenza sconfigge la ragione, 2023).

La “violenza etica” consiste nella capacità di convincere milioni di persone, alle quali viene spiegato fin da bambini che la violenza è una modalità sbagliata di rapportarsi all’altro, anche nei conflitti, che – al contrario – in certe condizioni è legittimo uccidere per perseguire la difesa di un bene superiore, di volta in volta indicato dai governi. La “violenza etica” ribalta così i principi morali fondamentali che inibiscono la violenza, dei quali lo Stato in caso di guerra pretende l’immediato dis-apprendimento: la violenza diventa lecita, la nonviolenza diventa illecita. Fino al punto da mettere all’indice le opinioni contrarie, quelle pacifiste per esempio, critiche rispetto all’invio di armi al governo ucraino nella guerra con la Russia, per giungere ad una soluzione negoziale.

Ma anche la giustificazione della violenza bellica, specifica Bordoni, è una forma di violenza, “perché insinua ed impone un valore etico non sentito spontaneamente. Non solo anacronisticamente, ma addirittura creato artatamente per raggiungere un determinato scopo: l’accettazione della guerra”. Questo – invece dell’educazione alla nonviolenza nella gestione dei conflitti internazionali, come di quelli interpersonali – è quanto sta avvenendo intenzionalmente con il processo di militarizzazione delle scuole, come denuncia con crescente preoccupazione l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, attraverso l’ingresso sempre più massiccio di rappresentanti delle forze armate nei contesti educativi, anche con percorsi di alternanza scuola-lavoro (pcto) attraverso l’organizzazione di visite a basi militari e caserme, fino alla recente sponsorizzazione di zainetti scolastici di un noto marchio da parte dell’Esercito, presto ritirati dal mercato in seguito alle proteste.

La Giornata internazionale della nonviolenza serve quindi a ricordarci che, anche per le controversie internazionali, invece della “violenza etica” in base alla quale il fine giustifica i mezzi, secondo l’adagio obsoleto, vanno costruiti strumenti nonviolenti perché, come insegnava Gandhi, “i mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero”. E a questi mezzi bisogna formare tutte generazioni: la nostra ripudiata Costituzione lo prevedeva già (intanto, in attesa degli adempimenti dei governi, il Movimento Nonviolento e i suoi partner hanno organizzato per il 2 ottobre iniziative in tutta Italia).