Ha scritto la verità la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel post sui social – poi inevitabilmente ripreso da giornali, radio e tv – con il quale ha ricostruito il contenuto della sentenza del tribunale di Catania che ha dichiarato illegittime alcune parti del cosiddetto decreto Cutro? E’ vero che la motivazione usata dalla giudice per liberare i migranti dal centro di Pozzallo è “incredibile” perché riguarda le “caratteristiche fisiche del migrante” considerate “favorevoli” al lavoro di “cercatore d’oro“? E’ vero che la magistrata ha dichiarato “unilateralmente la Tunisia Paese non sicuro“? La risposta a queste domande, in sintesi, è no. A far notare per prima la circostanza è stata su Twitter Vitalba Azzollini, giurista, editorialista del Domani, collaboratrice della Voce.info, che lavora alla Consob ed è membro dell’Istituto Bruno Leoni. “Il post di Meloni su Facebook distorce diversi profili – scrive Azzollini – Ad esempio, il tribunale di Catania: 1) non parla di Tunisia come paese non sicuro 2) non valuta nel merito le motivazioni del migrante, ma si limita a enunciarle 3) (dis)applica la legge, e non si scaglia contro nessuno”.
Cos’ha dichiarato la premier Meloni? Questo: “Sono rimasta basita di fronte alla sentenza del giudice di Catania, che con motivazioni incredibili (‘le caratteristiche fisiche del migrante, che i cercatori d’oro in Tunisia considerano favorevoli allo svolgimento della loro attività’) rimette in libertà un immigrato illegale, già destinatario di un provvedimento di espulsione, dichiarando unilateralmente la Tunisia Paese non sicuro (compito che non spetta alla magistratura) e scagliandosi contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”.
E cosa c’è scritto nelle motivazioni della pronuncia con cui il tribunale non ha convalidato il provvedimento del questore? La giudice Iolanda Apostolico elenca diverse motivazioni, in punta di diritto, che portano alla sua decisione. In linea generale ricorda intanto che “il richiedente (asilo, ndr) non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda” e che “il trattenimento deve considerarsi misura eccezionale e limitativa della libertà personale ex art. 13 della Costituzione” (quello secondo cui la libertà personale è inviolabile e qualsiasi restrizione dev’essere motivata da un tribunale).
Per quanto riguarda il suo diritto-dovere di non applicare la legge, la giudice Apostolico ricorda che “la normativa interna incompatibile con quella dell’Ue va disapplicata dal giudice nazionale” (un principio ribadito da una sentenza della Corte costituzionale di oltre trent’anni fa, che la giudice cita espressamente). Quale normativa dell’Ue non è compatibile col decreto Cutro sul trattenimento dei migranti? Apostolico si rifà agli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33/Ue “che ostano (cioè non permettono, ndr) a che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità” e anche che il “trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga il trattenimento e senza che siano state esaminate la necessità e la proporzionalità di una siffatta misura”. Apostolico nel suo provvedimento cita espressamente l’interpretazione data di questa direttiva dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Al contrario, sottolinea la sentenza, il provvedimento del questore non è corredato da una motivazione “idonea”, o meglio non integra la decisione con una “valutazione su base individuale delle esigenze di protezione manifestate, nonché della necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive”. In sostanza il questore ha applicato il decreto che è pensato dal governo “erga omnes”, senza alcuna distinzione personale. Per questo motivo il provvedimento del questore “non è compatibile con gli articoli 8 e 9 della direttiva Ue 2013/33” ribadisce la magistrata. Poi c’è la questione dei 5mila euro di cauzione, molto dibattuta in questi giorni sui giornali. E’ prevista da un decreto attuativo del 14 settembre che, di nuovo, è ritenuto incompatibile con la direttiva europea 2013/33.
A questo si aggiunge la direttiva europea 32 del 2013 che regola le procedure di frontiera e da una parte dispone che “gli Stati membri dovrebbero essere in grado di prevedere procedure per l’esame dell’ammissibilità e/o del merito, che consentano di decidere delle domande sul posto in circostanze ben definite” e più specificamente – scrive la giudice – “non autorizza l’applicazione della procedura alla frontiera, presupposto, nella specie, della misura del trattenimento, in zona, diversa da quella di ingresso, ove il richiedente sia stato coattivamente condotto in assenza di precedenti provvedimenti coercitivi”.
In un restante passaggio della sentenza il tribunale sottolinea comunque che la direttiva 33 del 2013 (la prima delle due citate sopra) è da interpretare secondo il principio dell’articolo 10 comma 3: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. La giudice ribadisce, rispetto a questo, che si deve escludere “che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il suddetto richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale“. Perché i padri costituenti abbiano previsto quell’articolo tra i principi fondamentali appare evidente: si usciva dalla dittatura fascista e il ricordo dei deportati per le leggi razziali e degli esuli politici fuoriusciti era una storia del giorno prima.
E quindi dove sono le “motivazioni incredibili” citate da Meloni? La giudice non scrive mai che la Tunisia “non è porto sicuro“. L’unica volta che usa l’espressione “porto sicuro” è in senso contrario quando esclude – come già spiegato poche righe sopra – che anche quando un migrante arrivi da un Paese sicuro gli debba essere negato il diritto a chiedere protezione. Anzi in un altro passaggio – che ricorre nelle sentenze di Catania – si legge nel testo “che, come si desume dal decreto, l’interessato, proveniente da un paese designato di origine sicura ai sensi dell’articolo 2 bis del decreto legislativo 20/05/2008, ha presentato la domanda di riconoscimento di protezione internazionale”.
Per quanto riguarda la questione dei “cercatori d’oro” invece è vero che la magistrata cita questa circostanza nel suo decreto, ma solo per registrare – come da prassi – ciò che è stato dichiarato dal giovane “trattenuto” e dai suoi legali durante l’udienza di convalida. Più precisamente, nel caso di questo 31enne tunisino la sentenza recita, come da prassi, che “il richiedente asilo ha dichiarato di essere giunto a Lampedusa, il giorno 20.09.2023, con un barca entrata direttamente in porto, e che, dopo Lampedusa, era stato portato in altro luogo, del quale non sapeva precisare il nome, e poi a Pozzallo; ha aggiunto di avere chiesto protezione internazionale a Pozzallo perché perseguitato per caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli nello svolgimento della loro attività (particolari linee della mano, ecc.) e di essere privo di documenti perché, nella fuga, non aveva potuto prelevarli dall’abitazione”. Ma questa non è la motivazione che la giudice usa per disapplicare il decreto né la giudice si sofferma a giudicarla.
Tanto è vero che sono stati liberati tre migranti e le sentenze sono uguali per tutti nelle motivazioni (perché il decreto, appunto, non distingue da un caso e l’altro), ad eccezione della parte introduttiva. Negli altri due casi, infatti, la giudice Apostolico ha messo a verbale nella sentenza che uno ha “affermato di essersi allontanato dal Paese di origine per questioni essenzialmente economiche e per minacce che aveva ricevuto da alcuni suoi creditori” e un altro che è partito perché – in questo caso è stata inserita la deposizione in prima persona – “ho avuto problemi con mia moglie in ospedale, mia moglie più volte è rimasta incinta, per tre volte ha partorito ma per mancanza di adeguate cure ospedaliere i neonati non sono sopravvissuti. Mia moglie è rimasta in Tunisia con uno dei miei figli. Nel mio Paese le cure sono a pagamento e per questo ho deciso di partire. Non sapevo di poter versare una garanzia finanziaria. Avevo portato con me una carta d’identità tunisina e un certificato di nascita ma li ho persi in mare. Il barcone era prossimo ad affondare perché aveva imbarcato molta acqua”.
Tutto questo prescinde dal merito della questione che, dopo il ricorso del ministero dell’Interno, finirà alla Corte di Cassazione per valutare se le motivazioni della sentenza del tribunale di Catania siano da confermare o meno.
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