Gollini, Posch, Smalling, Rrahmani, Biraghi, Frattesi, Loftus-Cheek, Renato Sanches, Candreva, Arnautovic, Vlahovic. Un bel 4-3-3, di ottimo livello. Sabato e domenica, nell’ultimo turno di Serie A, si poteva schierare un’intera formazione fatta di infortunati, e ce ne sarebbero stati altrettanti per la panchina. Fuori per mesi o pochi giorni, a causa di rotture traumatiche o semplici affaticamenti, comunque indisponibili. Tutti protagonisti mancati, per le loro squadre ma anche per il nostro campionato. Le troppe partite stanno “uccidendo” i calciatori, e pure il calcio.
È la settimana delle proteste. O meglio delle lacrime di coccodrillo. Maurizio Sarri, dopo Milan-Lazio: “Io sono ferocemente incazzato con Uefa, Fifa, Lega Serie A e tutta questa banda per questo calendario folle. Stanno mandando questi ragazzi al macello senza che nessuno intervenga”. Più o meno la versione italiana della filippica di Pep Guardiola in Premier League: “Devono fare pressioni sulla Fifa e sull’Uefa per dire basta e cambiare strada”. Sarri ci ha abituato a piangere quando non vince, Guardiola è un grande tecnico ma anche un gran paravento (allena il club che forse più in assoluto incarna il sistema che lui dice di voler combattere), però indubbiamente nelle loro parole c’è del vero, e hanno il merito di riproporre un tema di cui non si parla a sufficienza. Si gioca troppo. E quando si gioca troppo, ci si fa male.
Dall’inizio del campionato, in Italia ci sono stati più di 50 infortuni. La controprova non c’è, ma il sospetto che sia colpa del numero sempre più alto di partite è forte. Il problema, però, non è tanto la correlazione in sé fra calendario e infortunati: con estremo cinismo, si potrebbe persino mettere in conto di sacrificare la salute dei giocatori, come avviene in parte nel rugby o negli sport americani, dove i traumi fanno parte di un gioco usurante e infatti le squadre sono composte da rose sconfinate. Il pallone dovrebbe cominciare a chiedersi piuttosto se il “calendario” (e per calendario intendiamo in senso lato l’organizzazione che il calcio moderno si è dato) stia portando i suoi frutti, di cui i troppi infortuni sono solo un effetto collaterale, o non sia controproducente.
I turni infrasettimanali, le partite ogni tre giorni in una cadenza in cui al campionato segue la coppa, alle competizioni per club le nazionali, in un loop senza fine o soluzione di continuità, rispondono a una sola logica: fare soldi. Aumentano le partite per aumentare i ricavi, in particolare quelli dei diritti tv che rappresentano la principale fonte di sostentamento del sistema. Su questo sono tutti d’accordo, e quindi tutti colpevoli: la Uefa che ha varato la Super Champions League (dall’anno prossimo andrà anche peggio) e si è inventata la Nations League, la Fifa che per non essere da meno ha creato il nuovo Mondiale per club, le Leghe nazionali che di riformare i campionati non ne vogliono sapere (la Serie A è la prima che si rifiuta di scendere a 18 squadre, come invece sarebbe opportuni, per timore di perdere quote di mercato). Viene quasi da rivalutare la Superlega, che del “giocare meno, giocare meglio” aveva fatto il suo motto, se non fosse che per meno loro intendevano far sparire tutti gli altri, per meglio accentrare i ricavi nelle proprie casse.
La domanda però è d’obbligo: davvero basta aumentare la quantità per alzare il valore? Oltre a un certo effetto nausea che comincia a venire anche ai tifosi più appassionati, c’è proprio un problema di depauperamento del prodotto. Il calendario sta snaturando il gioco, le squadre sono decimate, il turnover sempre più esasperato: ogni giornata si vedono formazioni stravolte, campioni indisponibili o a riposo forzato, risultati condizionati dalle scelte che gli allenatori sono costretti a fare. Il calcio dovrebbe davvero cominciare a preoccuparsi per i troppi infortuni, anche solo per mero spirito di conservazione. Moltiplicano le partite per aumentare il valore del prodotto e gli incassi. Ma una Serie A (e vale per qualsiasi altro campionato) con tutti questi assenti è soltanto una Serie A più povera.