A molti di coloro che oggi hanno meno di sessant’anni il Pd appare una incomprensibile degenerazione di quello che era il PCI; per questo è utile ricordare l’anniversario di uno degli eventi cruciali della lunga evoluzione di quel partito. Fino alla morte di Stalin, il comunismo russo appariva alla quasi totalità dei militanti del PCI come la realizzazione di un sogno.
Che quel sogno fosse un incubo era noto a pochissimi alti dirigenti. Kruscev, che nel 1953 successe a Stalin, rivelò i crimini staliniani e avviò la destalinizzazione. Ma anche Kruscev era tutt’altro che tenero, e nel 1956 i suoi carri armati invasero l’Ungheria, dove Imre Nagy, che fu poi giustiziato, aveva appoggiato un blando programma di liberalizzazioni. Togliatti rimase fedele al PCUS, ma molti militanti e quadri erano fortemente critici; tra questi Giuseppe Di Vittorio, già membro dell’Assemblea Costituente e segretario generale della Cgil. Di Vittorio fu attaccato pesantemente dalla dirigenza del PCI ma era un uomo di fermi principi e non cedette; inoltre era una figura carismatica, amata dai lavoratori, che si trovarono a non potere allo stesso tempo stare con Togliatti e con Di Vittorio: incominciava la crisi interna del PCI.
Nel 1964 Togliatti moriva e gli succedeva alla guida del PCI Luigi Longo che dopo quattro anni si dovette confrontare con la primavera di Praga di Alexander Dubcek, un altro comunista riformatore. Quando nell’agosto del 1968 la primavera di Praga fu repressa da Leonid Breznev, segretario generale del PCUS, con l’invasione militare della Cecoslovacchia, il PCI espresse ferme critiche e proteste che però aggravarono le crisi: interna, tra militanti fedeli all’idea sovietica e militanti critici; ed esterna, con il PCUS.
Nel 1972 Enrico Berlinguer successe a Longo nella carica di segretario generale del PCI e ne mantenne le posizioni. L’anno successivo, invitato ad un incontro ufficiale a Sofia, fu duramente attaccato dai delegati bulgari e sovietici e gli fu chiesto di ritrattare l’appoggio dato dal PCI a Dubcek cinque anni prima. Berlinguer si rifiutò.
Il 3 ottobre 1973, mentre Berlinguer andava all’aeroporto di Sofia per tornare in Italia, l’automobile su cui viaggiava fu investita e distrutta da un camion militare; nell’incidente morì il suo interprete e furono gravemente feriti due dirigenti bulgari che lo accompagnavano; Berlinguer se la cavò con ferite minori e fu ricoverato in un ospedale di Sofia dal quale i medici non volevano dimetterlo. Sandro Pertini, allora Presidente della Camera, mandò a prenderlo un jet dell’aeronautica militare; di fronte alla minaccia della crisi diplomatica i bulgari cedettero e Berlinguer tornò a Roma.
Berlinguer fu sempre molto reticente sull’incidente, che riteneva un attentato del KGB, e chiese il massimo riserbo a tutti i componenti della direzione del PCI, per non approfondire ulteriormente la crisi interna del PCI, nel quale la fazione filosovietica era ancora forte. Berlinguer sosteneva che la distensione doveva avvenire per un progressivo avvicinamento dei blocchi comunista e occidentale, piuttosto che per defezioni di singoli paesi dall’uno all’altro blocco; ma a volte gli capitò di presentare la sua visione con parole che suggerivano preoccupazioni più profonde, come il famoso: “Mi sento più sicuro stando di qua” in una intervista del 1976 a Giampaolo Pansa.
Dopo i fatti di Praga, l’immagine del comunismo sovietico precipitò per la non più occultabile persecuzione degli oppositori interni, tra quali il fisico Andrej Sacharov e lo scrittore Aleksandr Solzenikyn, entrambi premi Nobel; per l’invasione sovietica dell’Afghanistan iniziata nel 1979; e per l’imposizione del regime del generale Jaruzelski in Polonia, che doveva reprimere l’azione del sindacato Solidarnosc di Lech Walesa. Su tutti questi fronti il PCI si espresse criticamente, ma per l’opinione pubblica il comunismo russo e l’eurocomunismo di Berlinguer risultavano difficili da separare.
Nel 1985 fu eletto segretario generale del PCUS Mikhail Gorbaciov, che, consapevole del grave stato di sofferenza economica e della diffusa insoddisfazione della popolazione avviò un programma di riforme in senso liberale, la perestroika, che lui stesso assimilava a quello che Dubcek avrebbe voluto introdurre in Cecoslovacchia vent’anni prima. Nel 1991 l’Urss fu sciolta.
Achille Occhetto, dal 1988 segretario del PCI, si trovò a gestire il disastro dell’Urss, che dal ruolo di guida dei comunisti di tutto il mondo era diventata l’emblema di una dittatura non solo sanguinaria, ma anche economicamente fallimentare. Era necessario un segno di discontinuità che distaccasse il PCI da una eredità ormai insostenibile, anche a fronte del fatto che i partiti avversari lucravano consensi accomunando il PCI ai crimini dell’Urss. Occhetto sciolse il PCI e fondò il Partito Democratico della Sinistra; Armando Cossutta, a capo degli intransigenti, fondò invece Rifondazione Comunista. La crisi iniziata nel 1956 aveva trovato il suo compimento.
Mancò al PDS, e manca tuttora al Pd, una esplicita rielaborazione ideologica, e questo difetto, dovuto sia alla scarsa capacità dei dirigenti che al timore di perdere ulteriori consensi verso la sinistra massimalista, pesa oggi nell’immaginario di molti elettori che vorrebbero un partito “più di sinistra” senza sapere esattamente cosa questo significhi: perché rifiutare il libero mercato significherebbe ricadere nella trappola del comunismo sovietico; accettarlo richiede di modificare i principi del marxismo.