C’è da scommettere che anche l’asta che si è aperta il 2 ottobre per l’acquisto dei titoli di Stato sarà un grande successo, come lo è stato quello delle due ultime tornate precedenti. In un anno il governo ha raccolto dai privati circa 25 miliardi, risorse che evidentemente i risparmiatori italiani avevano prontamente disponibili. L’incentivo irresistibile è stato, naturalmente, l’elevato tasso di interesse governativo. Anche stavolta Giorgetti ha lusingato il risparmiatore italiano con un tasso minimo del 4,5%, quindi ben superiore alle offerte disponibili sul mercato. I soldi il governo li cerca per necessità, dal momento che la Banca Centrale Europea non acquista più i nuovi titoli, avendo cambiato nel tempo orientamento.
Siccome nessun pasto è gratis, la generosità governativa ha un prezzo non indifferente. Per capire questo, facciamo un po’ di economia futuribile e poniamoci nel 2026, cioè nel penultimo anno del governo Meloni prima delle elezioni del 2027. Questo viaggio nel tempo è possibile perché utilizziamo le previsioni governative per il 2026 della Nadef appena approvata. Andiamo a vedere quello che ci interessa e cioè la dimensione del debito pubblico. Nel 2026 il debito pubblico italiano sarà pari a 3.184 miliardi. Cioè con Meloni il nostro debito ha sfondato la soglia psicologica dei 3.000 miliardi. L’anno scorso, quando la premier si è insediata, il debito pubblico era pari a 2.757 miliardi. L’incremento nel giro di appena quattro anni sarà di 427 miliardi, pari al 16% del totale.
Meloni come premier potrà vantare anche questo poco invidiabile primato: nessuno è stato bravo come lei a creare debito. È la Presidente del Consiglio più spendacciona e sprecona di sempre. Se poi volessimo essere pignolini e ci chiedessimo quanto costerà all’erario questa futura follia finanziaria possiamo prevedere, con un tasso netto del 3%, una spesa annuale di 95 miliardi. Il governo di centro-destra si presenterà piuttosto sfacciatamente alle elezioni con il debito più alto di sempre e la spesa per interessi doppia rispetto a quella ereditata nel 2022.
Ma rimane una domanda. Come verranno usati nel corso degli anni, oltre che per garantire interessi generosi ai sottoscrittori e vari sconti fiscali alle consorterie amicali, questi miliardi di nuovo debito accumulato? Uno potrebbe ingenuamente, e keynesianamente, pensare che questo debito verrà utilizzato per potenziare e migliorare i servizi pubblici. E qui invece abbiamo una seconda e ancora più grande delusione. Guardiamo a due voci fondamentali del bilancio dello stato: la spesa per il personale e quella per gli acquisti della PA. Secondo la Nadef nel 2023 la spesa per il personale pubblico è stata di 187 miliardi e sarà la stessa nel 2026. Poiché nel frattempo si è verificata una modesta crescita economica, la sua quota calerà dal 9,6% del Pil all’8,3%. Quindi possiamo dire già ora con certezza che i dipendenti pubblici diminuiranno e che per loro non ci saranno risorse, al di là delle chiacchiere ministeriali. La spesa per i beni intermedi salirà lievemente da 167 a 172 miliardi, anche perché c’è l’inflazione. Tenendo conto della sua quota rispetto al Pil ci sarà invece ancora un calo dall’8,6 al 7,6%.
Non credo che sarà possibile migliorare i servizi pubblici, come si ripete spesso dal governo, riducendo in maniera così drastica le risorse destinate a questo scopo. Quello che sì profila da qui al 2026 è una spending review senza pari che rischia di mettere a repentaglio molti servizi pubblici, già oggi carenti perché del tutto sottofinanziati. Questo sarà un altro titolo di (de)merito di Meloni: nessuno come lei taglierà i servizi dello stato sociale come sanità, scuola, sicurezza, coesione sociale, portando acqua al mulino neoliberista. La premier passerà alla storia come il killer silenzioso, anche se non l’unico, dello stato sociale.
Qualcuno potrebbe dire, a ragione, che non è tutta colpa del duo Giorgetti-Meloni se sfonderemo la pazza quota di 3.000 miliardi di debito pubblico, perché molti altri hanno dato precedentemente il loro contributo. Certo, ma quando ci si avvicina ad un precipizio è inutile recriminare sul percorso già fatto e dare la colpa agli altri, quello che conta è cercare di evitare l’ultimo e fatale passo. Pagare generosi interessi per indurre i cittadini a comperare titoli di stato è una mossa sconsiderata che porterà ad un ulteriore aumento del debito che, alla fine, diventerà insostenibile. Ma appunto, alla fine e cioè nel 2027 e oltre. Il populismo economico, anche quello Made in Italy, è fatto così: vive alla giornata, sperando che non piova, e non si cura di quello che accadrà dopo, contando sulla credulona ingenuità degli elettori.