La giustizia, ancora una volta, si ritrova giocoforza a fare da supplente a una politica inerte rispetto alle emergenze del Paese. Mentre il governo ancora attende le proposte del Cnel per contrastare la povertà lavorativa, la Cassazione ha stabilito che i giudici possono disapplicare i contratti collettivi nazionali che prevedano minimi non “proporzionati alla quantità e qualità del lavoro” e “sufficienti ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” come prevede la Costituzione. E fissare una cifra che risulti invece adeguata: un “salario minimo costituzionale” che “deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera“. Per farlo devono tener conto dei contratti collettivi di settori affini e utilizzare la soglia di povertà calcolata dall’Istat come limite minimo inderogabile. Morale: la contrattazione tra sindacati e datori di lavoro, che secondo la premier Giorgia Meloni basta e avanza per tutelare i lavoratori e rende inutile un minimo legale, deve cedere il passo quando arriva a individuare retribuzioni non conformi alla Carta. Le opposizioni, che in estate hanno depositato in Parlamento una proposta di legge unitaria per un minimo orario di 9 euro lordi all’ora, esultano parlando di decisione “storica“.

“Risulta pertanto”, recita il fulcro della sentenza 27711/23 pubblicata il 2 ottobre, “che nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale” non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva“. La Suprema Corte ha così ribaltato una sentenza della Corte di Appello di Milano che aveva sancito il primato della contrattazione e ha accettato il ricorso del dipendente di una cooperativa attiva nei servizi fiduciari che lavorava per Carrefour e, al termine della solita spirale di cambi di appalto, era finito inquadrato con il famigerato ccnl della Vigilanza privata e servizi fiduciari firmato dai sindacati confederali. Già dichiarato più volte incostituzionale e associato negli ultimi mesi a diverse inchieste per sfruttamento e commissariamenti di aziende accusate di aver corrisposto al personale “retribuzioni ben al di sotto della soglia di povertà”.

La Costituzione prevale sulla contrattazione – I giudici non si limitano a sancire che la contrattazione collettiva “non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale” perché “i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione sono gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione”. Ma spiegano anche come stabilire il quantum. In prima battuta si deve guardare ai contratti che regolano settori affini e categorie analoghe, ma oggi “l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è divenuta un’operazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale”. In primo luogo la direttiva Ue dello scorso anno che ha l’obiettivo della “convergenza sociale verso l’alto” dei salari per assicurare condizioni di vita dignitose e “convalida in più di una disposizione il riferimento agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà, oltre che ad altri strumenti di computo ed indicatori nazionali ed internazionali”. Possono aiutare i criteri previsti dalla stessa direttiva per valutare l’adeguatezza dei salari minimi legali, stando ai quali il minimo orario dovrebbe essere fissato a un livello vicino al 60% del salario lordo e al 50% di quello mediano.

Le opposizioni: “Salario minimo legale non rinviabile” – “Questa pronuncia segna cambio di passo decisivo, perché dice a chiare lettere che da sola la contrattazione collettiva non può bastare“, scrivono i parlamentari M5s delle commissioni Lavoro di Camera e Senato. “Di fronte a questo storico consolidamento giurisprudenziale, il M5s è convinto che l’approvazione del salario minimo legale sia un passaggio non più rinviabile nel nostro paese. Non è accettabile che nel 2023 si viva in povertà pur lavorando. L’auspicio ora è che la premier Meloni e la sua maggioranza abbattano il muro che hanno voluto erigere di fronte a una norma di civiltà e di dignità, che negli altri paesi europei in cui è presente ha portato benefici non solo ai lavoratori ma a tutto il tessuto produttivo”. D’accordo Maria Cecilia Guerra, responsabile lavoro del Partito Democratico, che nota come “il riferimento alla contrattazione collettiva più rappresentativa resta il primo riferimento per la valutazione sull’equità della retribuzione, ma, se ne rileva l’insufficienza, il giudice se ne può discostare. È allora evidente che, in questo contesto, l’approvazione della proposta sul salario minimo presentata dalle opposizioni non solo darebbe ai giudici un riferimento certo per definire la giusta retribuzione, ma soprattutto eviterebbe che il lavoratore debba rivolgersi a un tribunale per avere ragione nella sua lotta contro lo sfruttamento. È ora di approvarla”. Mentre il vice capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra alla Camera Marco Grimaldi sottolinea come sia “la prima volta che la Cassazione parla di ‘povertà nonostante il lavoro’, introducendo in sostanza al massimo grado la categoria di lavoro povero nel dibattito giurisprudenziale”.

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