Le due tragedie dell’ottobre 2013 dovevano segnare un punto di svolta nell’approccio all’immigrazione del Mediterraneo. Al contrario, agli oltre 636 morti di allora se ne sono aggiunti almeno 25mila in dieci anni. E la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza che si celebra nella data del primo naufragio, il 3 ottobre, è ormai l’appuntamento con il bilancio fallimentare delle politiche europee e nazionali, che nulla hanno a che fare col “mai più” levatosi in tutta Europa all’indomani di quei naufragi. Che sì, diedero vita alla missione Mare Nostrum istituita per salvare vite umane. Ma altrettanto in fretta la videro smantellata con l’accusa di favorire l’immigrazione. Ancora oggi un intervento umanitario coordinato a livello europeo non è all’ordine del giorno e l’unica strategia sembra quella della difesa dei confini esterni. Ma anche di quelli interni, in un clima di reciproche accuse tra Stati membri che potrebbero bloccare un’altra volta l’accordo sul già debole Patto Ue su immigrazione e asilo.

Il 3 ottobre 2013, a un passo dalla terra ferma di Lampedusa, un incendio divampa su un peschereccio con a bordo 500 persone, sopratutto somale ed eritree. Salpate da Misurata, in Libia, se ne salveranno 155, mentre almeno 368 troveranno la morte. “Bisogna reagire e agire. Non ci sono termini abbastanza forti per indicare anche il nostro sentimento di fronte a questa tragedia”, disse l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Nemmeno il tempo di concludere le ricerche dei corpi e dei dispersi che l’11 ottobre si inabissava un’altra imbarcazione: 268 siriani morti di cui almeno 60 bambini. I superstiti sono 212 e racconteranno il dramma della motovedetta libica che sparò loro contro danneggiando il peschereccio che iniziò a imbarcare acqua, ma sopratutto i vani tentativi di chiedere soccorso alle autorità italiane, con responsabilità acclarate di Marina militare e Guardia costiera italiane e processo finito in prescrizione lo scorso dicembre. Non di naufragio si parla, infatti, ma di strage, la “strage dei bambini”.

“Spero che la divina provvidenza abbia voluto questa tragedia per far aprire gli occhi all’Europa”, disse l’allora vicepremier Angelino Alfano dopo aver visitato l’hangar dell’aeroporto di Lampedusa dove erano raccolti i corpi del naufragio del 3 ottobre. In effetti qualcosa si mosse e fu fatto in fretta, a una settimana dalla seconda tragedia. Il governo guidato da Enrico Letta affidò alla Marina e all’Aeronautica militare il compito di evitare che la tragedia si ripetesse. Prima di chiudere un anno dopo, il 31 ottobre 2014, la missione Mare Nostrum salvò la vita a più di 160mila persone. Cifre che altri valutarono come la prova di un incentivo alle partenze. “La presenza dei mezzi navali di Mare Nostrum vicino alla costa libica può incoraggiare i migranti i cui Paesi i paesi non hanno accordi di riammissione con l’Italia”, dichiarava Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere. Che suggeriva di sostituire la missione con una più arretrata e a basso impatto, da annunciare con largo anticipo così da disincentivare ulteriori partenze e limitare i morti.

L’Europa, che nel frattempo metteva in scena lo scaricabarile dell’accoglienza tuttora in voga, accettava il consiglio. In Italia la destra e in particolare la Lega di Matteo Salvini che aveva dichiarato guerra a Mare Nostrum accoglieva con soddisfazione il nuovo corso, fatto di missioni con ridotto raggio d’azione ma soprattutto con una nuova missione, la difesa dei confini. Archiviata la missione italiana venne l’europea Triton che, per stessa ammissione di Frontex, non sostituiva Mare Nostrum, non si sarebbe spinta in acque internazionali se in casi straordinari e soprattutto non avrebbe avuto il salvataggio di vite come priorità, come del resto sarebbe stato per le successiva Themis, Sophia, Irini. Nel frattempo il conflitto siriano spingeva milioni di persone fuori dal Paese e l’accordo informale e miliardario con la Turchia per contenere i flussi orientali sanciva la priorità europea: la difesa dei confini e la limitazione di fatto del diritto d’asilo. Dopo il 2016, anno record per gli sbarchi con 180mila arrivi, nel 2017 il centrosinistra italiano firmava col governo Gentiloni il memorandum con la Libia, accompagnato dal primo regolamento per le ong, le organizzazioni umanitarie che avevano deciso di colmare il vuoto lasciato da Mare Nostrum.

Nonostante il Paese diviso e instabile, alla Libia fu concesso di istituire una propria area di mare SAR (search and rescue, ricerca e soccorso), da pattugliare grazie ai finanziamenti italiani alla cosiddetta guardia costiera libica. Obiettivo, bloccare i migranti che l’Italia non poteva più permettersi di respingere verso il Paese nordafricano senza incorrere in sanzioni. Così l’idea delle ong di spingersi dentro la zona SAR libica, consapevoli delle tante richieste di salvataggio che finivano rimpallate tra Italia e Malta e inascoltate dai libici, costò loro la stessa accusa mossa anni prima a Mare Nostrum, cioè di incentivare le partenze con la propria, rassicurante presenza. Anticipato da Gentiloni e Minniti anche su questo fronte, il primo governo di Giuseppe Conte volle comunque rilanciare, tra decreti sicurezza voluti dal ministro degli Interni Salvini e la famosa denuncia sui “taxi del mare” lanciata dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio. Immancabile, l’Agenzia Frontex iniziò a riconoscere alle ong la stessa capacità di attrarre le partenze già attribuita a Mare Nostrum.

L’Europa iniziava allora a rinviare di anno in anno le proposte per una normativa comune su asilo e immigrazione, senza mai trovare il modo di superare il regolamento di Dublino che impone maggiori oneri ai Paesi di primo ingresso, obbligati all’esame delle domande di asilo di chi varca i loro confini. Nessun accordo nemmeno sulla redistribuzione dell’accoglienza, che manca tuttora. Al contrario, non senza calcoli politici ed elettorali, al centro delle polemiche tra Stati Ue torna ciclicamente l’operato delle ong. Il governo di Giorgia Meloni decide un’ulteriore stretta alla loro attività mentre la Germania rilancia il suo impegno finanziandone le operazioni. Nonostante il contributo agli sbarchi sia inferiore al 5%, i fondi tedeschi forniscono il pretesto per l’ennesimo scontro alla vigilia delle elezioni europee, tanto che sulle ong salta anche l’ultimo Consiglio Ue che l’Italia abbandona in polemica con le posizioni tedesche. Mentre l’Europa litiga chiusa in se stessa, il bilancio dei morti si allunga. Ma nessuno chiede di rimettere in mare una missione che salvi vite umane. Nemmeno dopo la tragedia di Steccato di Cutro del 25 febbraio scorso, quando un’imbarcazione partita dalla Turchia con a bordo 180 persone colò a picco su una secca a poche decine di metri dalle coste calabresi, venne invocata una soluzione umanitaria.

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