Tutti assolti, perché il fatto non sussiste. Finisce così, con la vecchia formula dell’insufficienza di prove, il primo grado del più grande processo per disastro ambientale in Liguria: il procedimento che vedeva sotto accusa 25 fra ex amministratori, dirigenti e tecnici della ex centrale a carbone Tirreno Power. Un impianto industriale che secondo varie consulenze discusse durante il dibattimento era nell’epicentro di un’anomalia epidemologica: a Vado Ligure (Savona), e nelle zone limitrofe esposte alle ciminiere, per anni si sono verificati tassi anomali di morti (+48%), di patologie polmonari (+98%) e malattie cardiovascolari. Una piccola Taranto ligure, tornata agli onori delle cronache quest’estate, dopo la rivolta scatenata dalla decisione del presidente della Regione Giovanni Toti, che ha scelto proprio il già martoriato comune di Vado Ligure per ospitare il rigassificatore che la gente di Piombino non vuole.

La sentenza, pronunciata dal giudice Francesco Giannone, è stata accolta dalle proteste dei comitati cittadini, presenti in aula. “La mia testimonianza non è stata considerata perché indiretta – sono le parole di una donna tra il pubblico – ma mio marito non ha potuto testimoniare perché è morto. E oggi è morto per la seconda volta”. Soddisfazione, invece, da parte dell’azienda: “Oggi viene sancito nero su bianco in nome del popolo italiano quello che abbiamo sempre ripetuto fin dall’inizio – ha dichiarato Giuseppe Piscitelli, direttore degli affari legali di Tirreno Power – abbiamo rispettato tutti i limiti di legge e non abbiamo mai arrecato danno a territorio, popolazione e lavoratori”. “Una sentenza incredibile – ribatte Marco Caldiroli, presidente nazionale di Medicina Democratica, parte civile nel processo – che potrebbe essere letta come una licenza a inquinare”.

Per raccontare questa vicenda occorre tornare a dieci anni fa, quando la Procura di Savona, su input dell’allora procuratore Francantonio Granero, dispose il sequestro e l’immediata chiusura dell’impianto. Nel mirino dei pm c’erano le emissioni della centrale, e in particolare l’inquinamento e l’alta concentrazione di ossidi di zolfo, ossidi di azoto, polveri e monossido di carbonio. La Procura aveva in mano uno studio epidemiologico allarmante, che correlava le emissioni a un tasso di morti e malattie molto più alto della norma. Sarebbero stati necessari costosi interventi di adeguamento, evitati secondo i magistrati perché costavano troppo e la società, che per anni è stata controllata dal gruppo che faceva capo a Carlo De Benedetti, ha continuato a macinare dividendi.

L’inchiesta prese anche una piega clamorosa. Sul registro degli indagati furono iscritti nomi eccellenti: i vertici della politica regionale, dagli assessori fino all’ex governatore di centrosinistra Claudio Burlando. Ovvero, tutti coloro che, secondo i pm, avevano autorizzato l’espansione di un impianto altamente impattante, nonostante l’utilizzo di tecnologie superate e poco performanti. La prova della bontà di quel teorema, si disse, era nel fatto che nell’anno successivo al sequestro le emissioni furono abbattute.

Quell’impianto accusatorio crollò prima di arrivare in fondo: tutto il livello politico fu prosciolto. E a processo, alla fine, sono andati tecnici e amministratori. Un dato di discontinuità non da poco, considerando l’esito del processo. Per capire le spiegazioni dietro a questa sentenza occorrerà attendere le motivazioni, ma è possibile che una delle argomentazioni più battute dalle difese possa aver fatto breccia nel tribunale: Tirreno Power, hanno rivendicato gli ex manager, ha sempre fatto ciò che era consentito dalla legge. In altre parole, se chi autorizzava il funzionamento della centrale non era stato ritenuto colpevole, lo stesso principio doveva valere anche per il gestore.

Per la pm Elisa Milocco, che nel corso di sei ore di requisitoria, ha chiesto 86 anni di condanne, “la centrale ha bruciato ogni anno circa un milione e mezzo di tonnellate di carbone, un calcolo da cui si può desumere come siano confluite nei fumi “circa 150 mila tonnellate di polveri volanti”. “Il gestore, – ha argomentato Milocco – certamente agevolato da una quasi assoluta carenza di controlli, ha di fatto ottemperato con abnorme ritardo alla quasi totalità delle prescrizioni imposte”. E ancora: “Nel corso degli anni Tirreno Power ha tenuto un atteggiamento negligente e sprezzante per le norme”, sebbene sia “difficile collegare queste condotte con l’evento che si è verificato” (l’inquinamento; le accuse di omicidio colposo erano già cadute in fase di indagine). Tuttavia, secondo la Procura, è stata omessa l’unica misura “che avrebbe davvero ridotto l’inquinamento, cioè la copertura del parco carbonile”. Nelle intercettazioni alcuni degli indagati parlavano con preoccupazione di quell’area: “C’è una polvere del Dio qua in giro”. “Gli azionisti non vogliono spendere denari nel carbonile e questo ha appaltato, boh”, si legge in un’altra telefonata.

I difensori degli imputati hanno sempre sostenuto che le consulenze su cui si poggiavano le accuse erano prive di dati scientifici. E che i dati di inquinamento e sanitari non fossero diversi da quelli di zone dello stesso territorio non collegate alla centrale: “È da escludere in maniera più netta possibile che Tirreno Power abbia provocato morti – conclude Piscitelli – perché tutte le accuse mosse non sono neanche arrivate a processo, sono state archiviate molto tempo prima. Questa sentenza decreta in maniera chiara ed inequivocabile che la centrale non ha prodotto danni alla salute della popolazione. E noi abbiamo sempre operato nei limiti di legge”.

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