La scorsa settimana in qualità di coordinatrice di Antigone sono stata in audizione presso le Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato, impegnato nella conversione in legge del cosiddetto decreto Caivano. Il decreto, accanto ad alcuni interventi infrastrutturali e di sostegno scolastico in aree meridionali, introduce e modifica norme penali che riguardano in particolare i minorenni. Il Capo II del decreto reca “disposizioni in materia di sicurezza e di prevenzione della criminalità minorile”, nonostante molti degli articoli che lo compongono influiscano pesantemente anche sugli adulti.
Cerco di riassumere brevemente la nostra contrarietà al decreto, per come ho tentato di riportarla ai senatori presenti nella speranza che possano effettuare interventi correttivi in sede di conversione. Per argomenti più articolati abbiamo predisposto un documento che si può consultare sul sito di Antigone. Innanzitutto non è mai buona cosa legiferare penalmente all’indomani di un drammatico fatto di cronaca, che con tutta evidenza scuote le emozioni e annebbia la ragione. Il sistema penale deve avere una logica interna che disposizioni volte a inseguire questo o quell’evento minano inevitabilmente. Il decreto mostra fin dal nome di essere nato con tale disposizione. Una cosa dobbiamo dire subito: non esiste alcuna emergenza criminalità minorile. Se guardiamo infatti ai dati dell’ultimo decennio, scopriamo che essa non è affatto in crescita, ma è soggetta a oscillazioni che mantengono gli ultimi dati assolutamente nella media precedente. Tre ordini principali di ragioni ci oppongono alle norme governative.
1. Innanzitutto la considerazione che la giustizia penale minorile ha funzionato e continua a funzionare, senza bisogno di interventi correttivi che servono soltanto a mostrare la voce grossa in cerca di facili consensi. I ragazzi hanno bisogno di ricevere educazione, ascolto, dialogo, non di galera. L’intera Europa guarda al nostro sistema come a un esempio da seguire. Non è un caso che la direttiva europea del 2016 sui minori autori di reato sia stata fatta scrivere all’Italia e codifichi fondamentalmente il nostro modello. La giustizia penale minorile italiana, figlia di un profondo dibattito e di trasformazioni culturali che si sono avute a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, mette al centro quel principio del superiore interesse del minore che le convenzioni internazionali ci impongono.
L’adolescente è una personalità in evoluzione che non può essere inchiodata al momento della commissione del reato. Per questo il codice di procedura penale minorile – che dal 1988 a oggi ha dato ottima prova di sé – lascia al magistrato un’ampia gamma di possibilità alternative di gestione del ragazzo: la valutazione deve essere fatta caso per caso, secondo il percorso che più si addice al recupero sociale di quel giovane, e non può avere una mera valenza punitiva sempre uguale a se stessa. Si pensi che oggi, a fronte di oltre 14.000 ragazzi e ragazze in carico ai servizi della giustizia minorile, poco più di 400 si trovano in carcere, pari circa al 3%.
Questo successo nel rendere il carcere una misura estrema non significa che il sistema sia lassista: significa piuttosto che è attento ai percorsi individuali e che utilizza quelli maggiormente fruttuosi. Vivere in comunità o seguire i programmi dei servizi sociali – lo studio, il volontariato, la formazione – non significa farla franca. Significa però seguire un percorso che spingerà il ragazzo ad affrancarsi dalla vita criminale con ben più frequenza di quanto non accada con il vivere chiuso in una cella. Alzare le possibilità di carcerazione, come fa il decreto Caivano con misure che incidono sulla custodia cautelare e sulle pene, non aiuta i minori e non aiuta la società che vuole combattere la criminalità giovanile.
2. Il secondo ordine di motivi della nostra contrarietà riguarda le norme amministrative. Si allargano le possibilità di disporre il cosiddetto Daspo urbano, ordine del questore di non frequentare alcune parti della città o di seguire alcune prescrizioni. E per la prima volta si estende ai minorenni la sua applicazione. Un ampliamento dell’amministrativizzazione del diritto penale, senza tuttavia le garanzie previste da quest’ultimo. Vi immaginate cosa potrà mai capire un ragazzino proveniente da contesti disagiati o ancor più da contesti di criminalità organizzata – i due grandi contenitori cui le norme si rivolgono – del divieto o dell’avviso del questore?
Un atto burocratico, proveniente da una figura distante e del tutto priva di funzione educativa: che efficacia preventiva potrà mai avere? Per avere efficacia non basta la burocrazia: bisogna fare tanta fatica. Fatica educativa, fatica sociale. Servono risorse, bisogna stare sui territori, ascoltare, potenziare i servizi sociali, le agenzie educative, mettere in campo politiche di inclusione.
3. Il terzo di questo elenco non esaustivo di motivi di contrarietà riguarda le politiche sulle droghe. Il decreto va a inasprire le pene per i cosiddetti fatti di lieve entità legati agli stupefacenti. Fatti che possono riguardare il ragazzino – così come l’adulto, perché l’inasprimento vale per tutti – che fuma hashish e che si trova coinvolto in un episodio di piccola cessione anche occasionale. L’aumento di pena fa sì che si ricada adesso nell’arresto obbligatorio in caso di flagranza, che si ricada nella possibilità di custodia cautelare, che si escluda l’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Mentre tutto il mondo sta comprendendo che le vecchie politiche sulla droghe sono fallimentari, che non riducono i problemi di tossicodipendenza ma si limitano a ingrassare le mafie, l’Italia aumenta la carica repressiva di una norma – l’art. 73 del Testo Unico sulle droghe – che è la protagonista assoluta del nostro sistema penale e senza la quale non esisterebbe sovraffollamento penitenziario. Una controtendenza della quale avremmo volentieri fatto a meno.