Il documento con le proposte sarà consegnato solo nelle prossime ore ai consiglieri. Ma la parte di "inquadramento" non lascia molti dubbi su quale sarà il punto di caduta
“Il sistema di contrattazione collettiva italiano si muove, nel complesso, in una direzione diversa da quella della tariffa oraria“. La frase compare a pagina 18 del documento di “inquadramento e analisi” del salario minimo prodotto dal Cnel su mandato della premier Giorgia Meloni dopo l’iniziativa comune delle opposizioni. Ed è il fil rouge che attraversa tutto il testo. La seconda parte, la più attesa perché dedicata alle proposte concrete, sarà consegnata nelle prossime ore ai nuovi consiglieri. Ma questi primi “elementi di riflessione”, approvati dalla Commissione dell’Informazione con il no della Cgil e l’astensione della Uil, non lasciano molti dubbi su quale sarà il punto di caduta. “Il documento chiude la porta al salario minimo a vantaggio di un’estensione dei Ccnl”, ha commentato su Twitter l’economista dell’Ocse Andrea Garnero. “Opzione che però incontra notevoli ostacoli giuridici e politici“. La Cgil intende rimanere al tavolo ma contesta sia il metodo sia il merito. “Abbiamo fatto presente che questa discussione non è neutra politicamente e crediamo che le proposte non debbano essere mediate al Cnel visto che c’è una discussione parlamentare aperta e il governo non ci ha convocati”, spiega al fattoquotidiano.it la segretaria confederale Tania Scacchetti.
Nelle 24 pagine del testo, va detto, non mancano gli sforzi di equilibrismo. Perché su diversi punti, a partire proprio dalla quantificazione dei minimi previsti dalla contrattazione, i 15 membri della commissione in cui siedono sindacati, Confindustria, Confartigianato e Confcommercio hanno posizioni diverse. Il succo però è che i problemi da affrontare sono ben altri (vedi “il nodo della produttività“), un minimo orario fissato per legge non eliminerebbe il lavoro povero, i ccnl coprono la stragrande maggioranza dei lavoratori e “un trattamento retributivo contrattuale è per definizione adeguato se frutto di un sistema di relazioni industriali rappresentativo”. Convinzione che ricalca quella del governo e i contenuti della memoria depositata in Parlamento dal presidente Renato Brunetta, ma è appena stata smentita dalla Cassazione. “Per noi invece la priorità è una norma sulla rappresentanza per dare efficacia erga omnes ai contratti e contrastare quelli pirata, ma con un salario minimo che faccia da limite sotto il quale non si può scendere“, continua Scacchetti. “Questo documento ci fa pensare che le proposte non terranno in considerazione questa posizione”.
“Tra le forze sociali e gli esperti si registrano posizioni alquanto diversificate se non contrapposte”, è la premessa del documento, secondo cui “non è dato sapere l’impatto di una eventuale legge in materia di salario minimo sul sistema economico e produttivo e sulla stessa finanza pubblica con riferimento al problema delle esternalizzazioni e degli appalti di servizi nelle pubbliche amministrazioni” e “ancora non chiariti – e comunque ampiamente dibattuti – sono i possibili effetti sui singoli lavoratori e sulle dinamiche complessive del mercato del lavoro” (anche se gli studi empirici su altri Paesi abbondano).
Il fatto che 22 Stati europei su 27 abbiano adottato un minimo legale non rileva perché la direttiva Ue del 2022, rivendica il testo, non impone ai Paesi in cui i ccnl coprano almeno l’80% dei lavoratori di introdurre un salario minimo. E in Italia la copertura “si avvicina al 100%”, anche se, ammettono i consiglieri, ci sono “settori o ambiti lavorativi (es. appalti di servizi) che non sembrano tuttavia garantire trattamenti retributivi adeguati (almeno stando agli indicatori suggeriti dalla direttiva europea, e cioè il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio, e come confermato da recenti interventi della magistratura)” e serve “particolare attenzione” al lavoro irregolare e sommerso, all’abuso dell’apprendistato e all’incidenza del part-time involontario. Oltre che, si legge più avanti, alle “prassi contrattuali poco o nulla trasparenti e dove spesso è possibile rinvenire fenomeni elusivi delle tutele di legge e di contratto collettivo”. Di qui la necessità di un “piano di azione nazionale” per l’adeguamento della contrattazione “alle trasformazioni della domanda e della offerta di lavoro”.
E i 7,5 milioni di lavoratori che hanno sì il contratto collettivo, ma scaduto da anni, con evidenti ricadute sul loro potere d’acquisto? La questione viene menzionata ma per evidenziare che “non sempre ritardo è sinonimo di non adeguatezza del salario o di assenza di meccanismi di vacanza contrattuale, concessioni una tantum (si pensi al rinnovo del contratto del terziario dove sono state introdotte misure “ponte” che risolvono il problema almeno per tutto il 2023), ovvero meccanismi di adeguamento all’andamento dell’inflazione”. Il messaggio è chiaro: il problema non è così grave. E in ogni caso almeno nominalmente il sistema dei ccnl “pur con non trascurabili eccezioni supera più o meno ampiamente” le soglie del 50% del salario medio e del 60% di quello mediano fissate dalla direttiva Ue come punti di riferimento e pari a rispettivamente a 7,10 e 6,85 euro l’ora. Anche qui tutto bene, secondo la Commissione dell’informazione, che però ammette come “criticità sono presenti” in un lunghissimo elenco di comparti: lavoro agricolo e domestico, multiservizi, servizi fiduciari, “questi ultimi molto diffusi negli appalti pubblici, ma anche privati”, settore turistico, pubblici esercizi, logistica, lavoro sportivo, culturale e artistico, attività di cura e assistenza alla persona rese in forma organizzata, appalti di servizio. Su cui servono “opportuni approfondimenti”.
Quanto alla piaga dei contratti pirata, ci si limita a derubricarla a “fenomeno marginale” in quanto i 335 ccnl depositati al Cnel firmati da sindacati non rappresentati nell’ambito del Consiglio coprono solo 54.220 lavoratori, lo 0,4%. Un dato ben noto che però non tiene conto di tre fattori: i sindacati che siedono nel Cnel non sono per questo “rappresentativi”, come dimostrano diverse sentenze. Non è detto che il contratto comunicato dall’azienda all’istituto di previdenza sia quello effettivamente applicato al dipendente per quanto riguarda la parte economica, per cui è possibile che il campo d’azione dei “pirati” sia ben più ampio di quanto appare. E la sola esistenza di quei contratti è un mezzo di ricatto che rafforza il potere delle parti datoriali nella sottoscrizione e nel rinnovo di quelli principali.
Di salario minimo si parla solo per dire che la scelta finale spetterà al decisore politico e per segnalare le “criticità della base informativa disponibile”: mancano dati per “una valutazione d’impatto su imprese e sistema produttivo”, le tariffe previste dalle proposte di legge sono “incomparabili” con i dati della massa salariale effettivamente percepita dai lavoratori che è utilizzata da Istat per valutare l’impatto sui lavoratori (l’Istat non la pensa così), la banca dati Cnel-Inps sui contratti non dialoga con il sistema delle comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro al ministero, tra i componenti della commissione “non esiste piena condivisione sulle voci retributive da prendere in considerazione per quantificare il salario minimo” (ma la proposta delle opposizioni è molto chiara nello stabilire che i 9 euro lordi all’ora non dovrebbero comprendere 13esima, 14esima, tfr, indennità e previdenza complementare). Difficoltà tecniche più o meno condivisibili che spianano la strada a uno stop politico. L’opposizione risponde rilanciando la raccolta firme a sostegno della sua proposta. Che il 17 ottobre tornerà in Parlamento per il voto.