Chi ha paura delle misure di prevenzione patrimoniali?
Sicuramente mafiosi e loro accoliti, ma non soltanto. C’è in Italia un partito vasto e trasversale di avversari delle misure di prevenzione patrimoniali, che potrebbe trovare nella Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) un potente alleato, soprattutto qualora il governo italiano decidesse di approfittare dell’occasione per neutralizzare lo strumento. Una situazione che ricorda in maniera preoccupante quanto accaduto con la vicenda Contrada.
Ma andiamo con ordine. L’Italia è la culla di questo strumento applicato, per quanto qui di interesse, al contrasto delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. In cosa consiste? Nella separazione tra l’aggressione dei patrimoni illeciti riconducibili direttamente o indirettamente alle mafie e la individuazione delle condotte personali penalmente rilevanti. Detto altrimenti: il processo penale serve ad accertare l’esistenza o meno di responsabilità penali che sono sempre personali e dall’accertamento di queste derivano sanzioni che vanno dalla detenzione in carcere alla confisca di quanto servito per commettere il reato o che di questo rappresentino il prezzo o il guadagno, ma accanto al processo penale sta un altro tipo di processo, il così detto “processo al patrimonio” che si celebra diversamente sia per presupposti che per procedura.
I provvedimenti ablativi che conseguono a questo altro tipo di processo non sono da intendersi come sanzioni penali (che possono derivare esclusivamente da un processo penale), ma come provvedimenti di prevenzione che servono appunto a ridurre il pericolo rappresentato dalle mafie, impoverendole. Sia chiaro: sostenere che questi provvedimenti non debbano essere considerati sanzioni penali non significa non rendersi conto del loro contenuto afflittivo. Ed è proprio per questa ragione che il Parlamento, soprattutto nella XVII Legislatura, ha riformato il sistema delle misure di prevenzione patrimoniali, anche facendosi carico di indicazioni che arrivavano dalla Corte Costituzionale e dalle Corti europee, migliorando in maniera significativa i presidi legali posti a tutela del così detto “proposto”, dei terzi in buona fede coinvolti e della continuità occupazionale relativamente alle aziende.
Ma per il partito trasversale, ostile alle misure di prevenzione patrimoniale, non basta mai!
Non basta migliorare la definizione dei presupposti, non basta definire meglio il procedimento a tutela delle ragioni di chi lo subisce, bisogna proprio gettare via il bambino insieme all’acqua sporca. E pazienza se il “bambino” sia il figlio legittimo di quella antimafia pioneristica e per questo eroica, rappresentata da uomini come Pio La Torre che letteralmente definirono la forma giuridica della mafia e quindi dell’antimafia, cavandola dalla loro profonda conoscenza della realtà, quando le forme giuridiche semplicemente e colpevolmente non esistevano.
La tesi di questo partito vasto e trasversale è semplice: la confisca del patrimonio è un atto gravemente lesivo delle libertà personali costituzionalmente fondate, per questo non può che essere considerato alla stregua di una sanzione penale e per questo non può che dipendere da una sentenza definitiva di condanna in ambito penale. Insomma: se c’è il reo, ci può essere confisca, senza reo la confisca è un abuso. Ma per Pio La Torre e per quanti con e dopo di lui presero sul serio lo strumento delle misure di prevenzione patrimoniali erano chiare due cose: che si potesse ottenere la certezza della provenienza illecita di un patrimonio, senza per questo arrivare alla medesima certezza della responsabilità penale del soggetto a cui quel patrimonio fosse riconducibile e che le mafie, puntando ovviamente alla salvaguardia dei capitali illecitamente accumulati, è proprio su questo “disallineamento” che hanno sempre puntato e puntano. Altrimenti sarebbero ladri di polli e non di libri antichi.
La materia è di scottante attualità, visto che proprio in questi giorni è circolata una proposta di legge firmata tra gli altri da un peso massimo di Forza Italia come Mulè, che soprattutto nella relazione introduttiva fa propria la linea del “partito ostile”.
Ma cosa c’entra in tutto questo la Cedu, cioè la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo? C’entra perché è stata investita della questione dai Cavallotti, famiglia di imprenditori siciliani finita al centro di una delle più tormentate e lunghe vicende processuali riguardante proprio l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali. Nel merito di questa storia non entro. Rileva che il quesito centrale posto alla Cedu dagli avvocati dei Cavallotti suona più o meno, così: è possibile che la confisca patrimoniale non venga considerata una sanzione penale e se no, è possibile che prescinda da una condanna penale?
La questione è stata per intanto considerata ammissibile dalla Cedu, che ha dato un termine (il mese di novembre) al governo italiano per presentare le proprie deduzioni. Come si comporterà il governo Meloni? Seguirà la linea che fu del leghista Maroni, padre politico dell’Agenzia nazionale per la gestione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati e del Codice Antimafia o seguirà la linea del partito di Dell’Utri e Berlusconi? E la Presidente “melonissima” della Commissione Antimafia, cultrice dell’eredità morale di Paolo Borsellino, avrà qualcosa da dire?