Il 7 ottobre a Roma ci sarà la manifestazione de La Via Maestra, Insieme per la Costituzione. Un’iniziativa partita in maggio, in seguito alla convocazione della CGIL e di alcune associazioni, tra cui l’Anpi, che figurano come co-organizzatrici dell’evento. Dopo 5 anni di lavoro indefesso esclusivamente sul contrasto al progetto eversivo di autonomia differenziata, il Tavolo NOAD e i Comitati per il Ritiro di ogni Autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti daranno vita, insieme alla Rete dei Numeri Pari, ad uno spezzone del corteo, che partirà da Piazzale dei Partigiani per arrivare in Piazza San Giovanni.

Moltissime le assemblee territoriali che sono state fatte nel corso dell’estate per sostenere la manifestazione. Momenti di incontro fondamentali con cittadine e cittadini, che ancora non sanno che siamo sull’orlo di un baratro, in cui – rispetto alla ampia piattaforma della manifestazione – abbiamo evidenziato il tema trasversale e sicuramente più pericoloso: l’autonomia differenziata, originato dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, e che è oggi a un punto di svolta.

Da una parte il ddl Calderoli, che norma le procedure che consentiranno alle regioni a statuto ordinario di accedere all’autonomia differenziata sulle materie che chiederanno tra le 23 disponibili, tra cui sanità, istruzione, infrastrutture, sicurezza sul lavoro, ambiente, produzione e distribuzione di gas ed energia, beni culturali, alimentazione, rapporti con l’Ue, previdenza integrativa, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; ne ho citate 11, ne esistono altre 12, ugualmente pesanti rispetto alle nostre condizioni di vita. Su di esse le regioni potranno esigere potestà legislativa esclusiva, cioè tutto, configurando un regionalismo impazzito: ogni regione con la propria “lista della spesa” sul mercato delle competenze attribuibili, ogni regione con le proprie richieste, differenti da quelle delle altre. E l’unità della Repubblica, sulla base della quale è ancora possibile esigere alcuni principi cardine della Carta, come l’uguaglianza sostanziale e il principio di solidarietà? Sarà ridotta ad un orpello retorico, perché di fatto si darà vita a 20 governatorati, ognuna con le proprie normative, che determineranno diritti civili e sociali (anche universali) sulla base del certificato di residenza.

L’altra pista che il governo sta perseguendo è quella della determinazione dei Livelli Essenziali di Prestazione; non affidati, come sarebbe corretto e come lo stesso art. 117 della Costituzione prevede, al Parlamento; ma ad una cabina di regia di nomina governativa, affiancata dalla Commissione Livelli Essenziali di Prestazione (CLEP), presieduta dal prof. Sabino Cassese. Su questa partita, inizialmente individuata come prerequisito essenziale affinché il ddl Calderoli possa divenire operativo, si stenta, dal momento che le attuali condizioni economiche del Paese non consentono alcun tipo di stanziamento, considerato peraltro che la Svimez ha indicato in 90 miliardi di euro la cifra che occorrerebbe per porre tutte le regioni italiane sul medesimo livello di prestazione, sanando le incredibili differenze che ci sono oggi tra Nord e Sud e tra territorio e territorio. Ma perché – qualora davvero ci fosse a volontà di concretizzare, oltre che di definire, livelli essenziali di prestazione – qualcuno dovrebbe avere l’“essenziale” (criterio peraltro decisamente non oggettivo) e qualcun altro, al contrario, continuare la propria corsa indisturbata per ottenere il massimo benessere della propria cittadinanza? Non dice altro la nostra Costituzione? Oggi alcune zone del Paese vivono in una condizione di povertà, assenza di infrastrutture, violazione di diritti universali per mancanza, ad esempio, di ospedali; davvero pensiamo che tale condizione possa essere sanata attraverso l’eventuale erogazione di servizi minimi?

La corsa alla privatizzazione dei servizi penalizzerà inoltre tutti e tutte coloro che vivono già oggi in una condizione di svantaggio, ovunque risiedano. L’affiancamento di contratti regionali al contratto collettivo nazionale colpirà ulteriormente una parte di lavoratori e lavoratrici, ovunque risiedano, creando condizioni differenti tra eguali. I nostri Lep sono scritti a chiare lettere nel c. 2 dell’art. 3 della Carta: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Tutto il resto configura una divergenza rispetto al principio di uguaglianza sostanziale. Sarebbe certamente preferibile destinare le (scarse) risorse a disposizione per cominciare a sanare alcune condizioni indecenti in cui versano parti del Paese, anziché alimentare la logica rapace e famelica dei ricchi che sottraggono ai poveri. O, peggio ancora, che se ne fregano dei poveri. I Lep saranno lo strumento per degradare ulteriormente i diritti sociali, come l’istruzione e la sanità, i cui stanziamenti il governo Meloni sta già tagliando.

Nel corso dell’estate ci sono stati una serie di fatti clamorosi, che tuttavia non hanno rallentato la corsa dell’ordigno a orologeria innescato da Calderoli e dal governo Meloni, peraltro in continuità con ciò che i governi precedenti, con minore convinzione, avevano tentato di fare. Si è pronunciata l’Ufficio parlamentare di Bilancio, con un dossier raccapricciante, che mette nero su bianco le conseguenze che si determinerebbero a livello di conti pubblici e di aumento delle diseguaglianze se il governo andasse avanti; si è pronunciata la Commissione Europea; si sono pronunciate – sia pur con toni differenti – la Banca d’Italia e la Confindustria. Si è pronunciata persino la Cei, che con il cardinal Zuppi è tornata diverse volte sul tema. Dalla Clep si sono poi dimessi, tra gli altri, Giuliano Amato e Franco Bassanini, paradossalmente padri di quella Riforma del Titolo V da cui l’autonomia differenziata ha origine. Davanti a questo fuoco di fila di dissensi e critiche, il governo non indietreggia.

A questo punto sta a noi – donne e uomini di questo Paese – cercare di fermare la macchina implacabile. Possiamo farlo gridando le nostre ragioni in piazza; ossequiando la Costituzione, quella nata dalla Resistenza e dal sangue delle partigiane e dei partigiani, e non scempiata da riforme e riformette che ne hanno mutato per certi versi la fisionomia, ma non intaccato i principi fondamentali. Dare una prova di responsabilità nei confronti di quel lascito, al di là della retorica e con la profonda convinzione che la partecipazione popolare sia l’unico antidoto alla prevaricazione, all’egoismo, al culto delle piccole patrie e ai particolarismi di ogni genere e di ogni natura. In questo contesto i sindaci possono esercitare una funzione fondamentale, mobilitandosi e attivando – attraverso consigli e assemblee pubbliche – cittadini e cittadine.

Per questo occorre essere in tante e tanti in piazza il 7 ottobre: le elezioni europee sono alle porte e forse il dissenso popolare è l’unica ragione che questo governo è in grado di comprendere. A Roma, sabato 7 ottobre, in piazza dei Partigiani, diciamo no alla costituzionalizzazione della diseguaglianze, per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti. Non è (almeno lo speriamo) che un inizio.

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