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Sui migranti le proposte del governo sono inattuabili. Ma attenzione alle polarizzazioni

di Alberto Barbieri*

Ascoltando il recente videomessaggio di Giorgia Meloni – seguito all’impennata degli sbarchi di migranti a Lampedusa – confesso di aver avuto l’impressione di trovarmi in un episodio della serie Black Mirror. In un mondo distopico, un governo impotente deve far fronte a una crisi inarrestabile e ripropone ai cittadini, colpiti da una ricorrente amnesia e perciò incapaci di reagire, sempre le stesse misure inutili quanto dannose, in un circolo vizioso senza fine.

Andando nel concreto, la presidente del Consiglio ha annunciato una serie di misure straordinarie per contenere gli sbarchi. Tra le altre cose chiederà al prossimo Consiglio europeo l’immediata attivazione di una missione per bloccare la partenza dei barconi dalle coste africane. In altri termini una riedizione del famigerato “blocco navale” proposto già alcuni anni fa dalla stessa Meloni ed evidentemente del tutto inattuabile poiché contrario al diritto internazionale, oltre che a ogni senso di umana misura. E ancora la premier annuncia il prolungamento dei tempi di trattenimento nei cosiddetti CPR (centri di permanenza per i rimpatri) dei migranti in condizione di irregolarità fino al massimo consentito dalle attuali normative europee, ossia un anno e mezzo. “Non conviene affidarsi ai trafficanti, se entrate illegalmente, sarete trattenuti e rimpatriati” questo è il minaccioso messaggio di Giorgia Meloni per i migranti.

E allora mi immagino su un molo di Lampedusa le autorità italiane scandire severe al ragazzo sudanese di 18 anni appena sopravvissuto ad un naufragio, ad una rotta infernale di migliaia di chilometri, di cui centinaia fatti a piedi, e in fuga dalla violenza del suo paese: “Guarda che hai fatto male a metterti nelle mani dei trafficanti!”. Come se questo adolescente avesse avuto qualche altra alternativa a questa infernale odissea. Ma poi purtroppo la presidente del Consiglio sembra dimenticarsi che già in passato, esattamente dodici anni fa, il governo Berlusconi (con Meloni ministro) aveva portato a 18 mesi i termini di trattenimento nei CPR, che allora si chiamavano CIE, con esiti del tutto fallimentari. E’ stato infatti ampiamente dimostrato (si veda ad esempio il rapporto Arcipelago CIE di Medici per i Diritti Umani) che se un migrante non viene identificato e rimpatriato nei primi 2-3 mesi di trattenimento, la possibilità che ciò si verifichi in seguito sono molte scarse. Il trattenimento per tempi prolungati in un CPR si trasforma così in un’inutile misura punitiva senza alcuna efficacia ai fini del rimpatrio.

Ma questa breve riflessione non vuole essere una polemica focalizzata sulle più recenti, a a mio avviso sconsiderate, iniziative del governo Meloni sull’immigrazione – che denotano più che altro impotenza e incapacità a comprendere il fenomeno. Cercherò quindi di formulare alcune considerazioni che ritengo fondamentali di fronte a un tema di straordinaria complessità, cercando di evitare in ogni modo un approccio ideologico. Se infatti l’ideologia è spesso nemica delle idee, in questo caso lo è a maggior ragione, in un rapporto, oserei dire, inversamente proporzionale. Il ragionamento che segue vuole dunque essere un piccolo contributo a superare quell’estrema polarizzazione, pro e contro, che si è venuta a creare nell’opinione pubblica sul tema delle migrazioni, a causa della quale ogni parte è ostinatamente convinta di avere ragione mentre il rischio è in realtà è quello di avere tutti torto.

Partirò dunque dalla domanda più abusata. L’attuale flusso migratorio, in particolare dall’Africa sub-sahariana, che investe l’Italia e l’Europa è un’emergenza? Certamente non lo è se consideriamo emergenza un fenomeno improvviso e imprevisto. E allora è un fenomeno del tutto fisiologico sul quale è ingiustificato sollevare paure e allarmismi? Direi nemmeno questo ed è un errore minimizzare quanto sta accadendo nelle ultime due decadi. Se le migrazioni hanno infatti sempre fatto parte della storia umana, il fenomeno migratorio di cui stiamo parlando ha senza dubbio oggi caratteristiche abnormi ed inedite, tali da farlo definire non un’emergenza, ma una crisi prolungata su cui si innescano picchi periodici particolarmente critici.

Ma soprattutto esso rappresenta il sintomo di fenomeni, non solo regionali, ma anche e soprattutto globali che minacciano lo stesso futuro dello sviluppo umano su questo pianeta. Pensiamo ai cambiamenti climatici. L’innalzamento delle temperature sta colpendo i territori del Sahel con maggior violenza rispetto ad altre parti del pianeta, con conseguenze catastrofiche per economie che dipendono in larga misura dall’agricoltura pluviale. Stiamo parlando di quella vasta fascia ai confini sud del Sahara che va dal Senegal all’Eritrea e da cui partono forti flussi migratori. Questo dato di fatto ci deve far riflettere sulle responsabilità che ha l’intera comunità internazionale sul fenomeno migratorio da questa regione dell’Africa e non solo. In altri termini, non ce la possiamo cavare dicendo che è un problema loro. E’ un problema anche nostro poiché, come è noto, la responsabilità del riscaldamento globale ricade essenzialmente sui paesi più industrializzati del pianeta.

Pensiamo ancora alle tensioni sociali che innesca l’inaridimento dei suoli di questa regione africana e che si va a sommare ai conflitti e alla violenza politica e religiosa che sconvolgono molti di questi paesi. Pensiamo alla crescita demografica imponente di molti paesi dell’area subsahariana. Da qui al 2050, l’Africa subsahariana conterà all’incirca il 57% della crescita demografica globale, e il 23% circa della popolazione mondiale sarà subsahariana, dal 15% circa attuale. E’ evidente che di fronte a sfide di queste dimensioni, che nei prossimi anni obbligheranno (e sottolineo obbligheranno) milioni di persone a spostarsi, non vi può essere che una risposta globale incentrata su un modello di sviluppo e cooperazione tra i popoli sostenibile e radicalmente differente dall’attuale. Questo ovviamente implica un cambiamento di paradigma che deve essere immediato ma che ha necessariamente bisogno di tempi medio-lunghi per dare i suoi effetti. Ma nel frattempo cosa si fa?

Beh, certamente non sarà il prolungamento dei tempi di trattenimento nei CPR italiani o altre misure di questo tenore ad arrestare flussi migratori che hanno le origini e le caratteristiche a cui si è accennato. Né è pensabile alzare alte muraglie, reali o virtuali, ai confini della fortezza Europa o addirittura in paesi terzi, e lasciare al loro destino nel Mediterraneo o sulle rotte africane uomini, donne e bambini a cui non è lasciata altra alternativa che migrare. In primo luogo perché è inumano e in second’ordine perché sarebbe inutile. La storia recente e passata dimostra che nessuna barriera è in grado di arrestare un movimento umano con queste caratteristiche.

D’altro canto è possibile e necessario fare qualcosa subito. Tra le misure che si potrebbero attuare vi è non certo un blocco navale, ma al contrario una grande operazione Mare Nostrum da parte degli stati Ue, per salvare vite umane e riprendere un controllo responsabile del mar Mediterraneo. A dieci anni dal naufragio di Lampedusa che provocò 368 morti, sarebbe un’iniziativa di vera svolta per ridare dignità all’Unione europea e fornire una prima risposta concreta alla vicenda umana che più sta segnando il nostro tempo.

* medico, coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani (Medu), organizzazione umanitaria indipendente che si propone di portare aiuto sanitario alle popolazioni più vulnerabili, nelle situazioni di crisi in Italia e all’estero