di Paolo Pastres
La parola è estremamente importante nella relazione fra persone. Come diceva Lacan, essa è il fondamento dell’interazione fra soggetti e non esiste parola senza risposta, dal momento che – sempre parafrasando Lacan – ad ogni parola si associa (anzi è) una domanda. Quindi le nostre parole lasciano un insospettabile segno in chi ci ascolta e tale segno è tanto più profondo quanto più noi, rispetto ai nostri interlocutori, pronunciamo le nostre parole da un pulpito autorevole e credibile, come sembra essere quello dei media.
La parola “transumanza”, detta da Andrea Giambruno in una trasmissione televisiva, ha lasciato un segno in me. Non intendo tanto insistere su un episodio in sé apparentemente banale e destinato ad essere archiviato, a maggior ragione dopo le scuse dello stesso Giambruno. Tuttavia il termine “transumanza” rivela una peculiare concezione di coloro che sono costretti a migrare. E tra l’altro, rivela un’amnesia storica, se non altro per il fatto che noi italiani siamo stati migranti (“transumanti”, secondo l’accezione di Giambruno) da sempre ed oggetto di discriminazioni da parte delle nazioni che ci ospitavano simili a quelle che noi riserviamo a coloro che provengono dall’Africa o dall’Asia.
Infatti quando si definisce l’attuale fenomeno migratorio come “transumanza”, in realtà lo si intende come un fatto naturale: come le greggi o il bestiame fanno, anche assistite dall’uomo, spostandosi stagionalmente in cerca di cibo o di un clima più fresco. Appare chiara la semplificazione, dal momento che le persone che migrano non si spostano perché indotte da una sorta di istinto naturale, ma perché vi sono ragioni economiche, politiche, relative alle guerre e al cambiamento climatico che rendono insostenibile la loro permanenza nei loro luoghi di origine. Per non dire che la “transumanza” implica comunque un ritorno connesso col cambiamento stagionale. I migranti che giungono a noi intendono stabilirsi in Europa e non vedono, nel loro futuro, alcun ritorno.
Pertanto, adottando il termine “transumanza” si compie un’operazione riduttiva, cioè si riduce il fenomeno migratorio a comportamento naturale. La colpevole semplificazione sta tutta nel fatto che si cancellano i patimenti, le sofferenze e i drammi che sottendono la dolorosa scelta di una persona di lasciare la propria terra e i propri cari e andare incontro ad inimmaginabili tribolazioni per arrivare a noi. Ma quando si identifica tutto ciò con la “transumanza”, si rimarca piuttosto la mancanza colpevole di volontà da parte del migrante a controllare e arginare il proprio “istinto migratorio”. Pertanto, secondo questo sciagurato punto di vista, il migrante è pregiudizialmente colpevole e per questo va rinchiuso (nei CPR).
Vorrei anche dire che in tale ottica non v’è necessariamente razzismo verso il colore della pelle. La discriminazione è di censo: se i migranti fossero ricchi, godrebbero di ben altro trattamento e considerazione. Immagino anche da parte di Giambruno.
Faccio notare infine che quando noi italiani ci opponiamo al fenomeno migratorio (irriducibile e che per questo andrebbe gestito piuttosto che ostacolato, ma questo è un altro discorso), dovremmo anche ricordarci che Romolo, il fondatore e il primo re di Roma, si vantava del fatto che questa città fosse originalmente composta da transfughi e reietti da altre città e luoghi diversi. Quindi Roma nacque come mescolanza di emarginati che provenivano da lingue e culture differenti. Romolo, assieme al fratello Remo, chiesero di integrare questa comunità, che loro guidavano, con Alba Longa. Ma Alba Longa rifiutò tale integrazione, per non intaccare la purezza del sangue dei loro cittadini. Romolo e Remo quindi furono indotti a dare vita ad una nuova città altrove: Roma. Come andò a finire lo sappiamo: Alba Longa sparì e Roma fondò un impero.