È praticamente pronta la proposta finale del Cnel sul salario minimo o, meglio, contro il salario minimo. L’assemblea dell’ente presieduto da Renato Brunetta la approverà nella seduta del 12 ottobre, dopo di che sarà facile per il governo Meloni respingere il ddl presentato a luglio dalle opposizioni, testo che vorrebbe introdurre una soglia di 9 euro l’ora. Il parere del Cnel suggerirà solo una spinta al rinnovo dei contratti scaduti, incentivi a quelli aziendali e stretta sugli accordi pirata (ma su questo sarà assai poco severo).

Calderone, intervistata dal Corriere della Sera, ha definito “prezioso” il lavoro del Cnel finora e fatto capire che l’Italia recepirà in maniera molto morbida la direttiva Ue sul salario minimo: non sarà fissata una cifra per legge, ma si continuerà a favorire la contrattazione di secondo livello, quella aziendale. Presupposto del ragionamento di Calderone, il fatto che – riprendendo quanto dice il Cnel – “la contrattazione collettiva copre ben oltre l’80% dei lavoratori italiani”. Quella è la soglia minima individuata dalla direttiva europea, dunque la ministra ritiene che l’Italia non abbia bisogno di salario minimo legale.

Problema: sui tassi di copertura dei contratti nazionali esistono diversi dubbi, tanto sulla quantità che – soprattutto – sulla qualità. Partiamo dal primo aspetto. Secondo il Cnel, praticamente tutti i lavoratori dipendenti italiani si vedono applicato un contratto collettivo e nel 96,5% dei casi parliamo di un accordo sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil. Questa conclusione è raggiunta incrociando i dati del Cnel stesso sui contratti nazionali e quelli Inps delle dichiarazioni Uniemens. Esistono però fonti di ricerca che indicano altre percentuali ben diverse. Il rapporto Inapp del 2022, pubblicato poco meno di un anno fa, riporta i risultati di un’indagine campionaria: da questa, viene fuori che – nel 2018 – l’88,9% dei dipendenti aveva un contratto collettivo.

Anche questa percentuale rispetterebbe i parametri della direttiva, ma nasconde dettagli da non trascurare. Il primo: se ci riferiamo solo alle imprese con meno di cinque dipendenti, la copertura scende al 77,8%. Ancora peggiori i dati se andiamo per settore: siamo al 76% nel turismo e al 67,3% nella sanità privata, comparti peraltro in cui i contratti rimangono non rinnovati a volte per anni. Ecco perché i più moderati sostenitori del salario minimo suggeriscono di introdurlo quantomeno per i settori con una contrattazione più debole, ipotesi comunque scartata dal governo. Va poi ricordato che i tassi ufficiali di copertura dei contratti non considerano i collaboratori e i falsi autonomi.

Fin qui, il discorso quantitativo. Anche quello sulla qualità, però, merita quantomeno una riflessione. Il Cnel sostiene che i contratti “pirata” coprano appena 54mila lavoratori, lo 0,4% del totale. C’è un errore di fondo: il Cnel dà in automatico il bollino blu della rappresentatività ai sindacati presenti nel Cnel stesso. In realtà, diverse sentenze di Consiglio di Stato e Tribunali del lavoro hanno disapplicato contratti di Ugl (per i rider) e Cisal (per commercio e distribuzione) poiché sottoscritti da sigle non rappresentative, pur presenti nel Cnel.

In ogni caso restano dubbi sulla copertura al 97% degli accordi di Cgil, Cisl e Uil. L’ultimo a sollevarli è stato ieri l’ex presidente Inps Tito Boeri: “Alcuni datori – ha scritto ieri su Repubblica – possono pagare i contributi corrispondenti ai minimi tabellari della contrattazione collettiva per evitare controlli e ispezioni, ma poi versare ai loro lavoratori meno di quella cifra e l’Inps non è in grado di saperlo”. Il sospetto, insomma, è che in alcuni casi – difficili da quantificare – la dichiarazione resa all’Inps certifichi solo quanti contributi vengono versati, ma non garantisce che l’intera busta paga sia davvero quella prevista da tali accordi. La direttiva europea era un’occasione per affrontare questi problemi. Il governo, con l’aiuto del Cnel, hanno deciso di cestinarla.

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