di Savino Balzano
Vorrei condividere con voi una riflessione e provare a ragionare su un valore del quale in politica, ma non solo in politica (penso al sindacato, ad esempio), spesso si sente parlare: la lealtà. Questa mia riflessione non ha nulla a che vedere evidentemente con fatti e persone specifici, si tratta di un ragionamento generale, e pertanto nessun capo di partito si senta offeso. Sono pensieri stimolati dal dibattito pubblico, dalle accuse che spesso si rivolgono ai politici e alle organizzazioni di non mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, per dirne una.
Alle volte in effetti ho pensato che la lealtà sia un valore da legare indissolubilmente alla coerenza: un leader politico afferma di voler fare determinate cose e in qualche modo suggella un patto con il proprio elettorato, con la propria comunità di riferimento, e la lealtà si misura appunto nella sua capacità di restare coerente con quella visione, con le prospettive annunciate, con disegno proposto al Paese.
Mettiamo però il caso che quel leader politico, che per anni ha professato di voler seguire un certo percorso, di essere animato da taluni valori e di essere portatore di una certa rettitudine, finisca poi col dimostrarsi nel tempo, per così dire, diverso. Ipotizziamo che decida di deviare dal tracciato precedentemente disegnato e di intraprendere strade alternative, ammantate di realpolitik e senso di responsabilità, magari facendo entrare nel partito gente improponibile pur di raggranellare qualche voto, inevitabilmente finendo coll’inficiare, con lo scalfire, quell’aura di infallibilità legata all’autorappresentazione del leader leale al popolo e coerente con le proprie promesse. E questo è un bel problema: non tanto per il capo, che se la canta e se la suona, quanto per quelli che egli ha attorno e che inevitabilmente a un certo punto si renderanno conto che qualcosa non quadra.
Si badi che le difficoltà non devono riguardare per forza una promessa elettorale disattesa, perché potrebbero essere legate anche a qualcosa di più imbarazzante: col tempo un leader, raccontatosi negli anni furbamente come incorruttibilmente retto e integerrimo, potrebbe dimostrarsi più piccolo e minuto di quanto si credesse, una specie di Principe Giovanni alla Robin Hood della Disney. Col tempo potrebbe venir fuori il profilo di un uomo fragile e insicuro, bassino, e pertanto isterico e dispotico: immaginate un leader aggressivo, offensivo, pieno di sé al punto da non rendersi conto della compassione e della pazienza che la sua comunità decide di riservargli per non sfasciar tutto, fingendo di non vedere di quante ridicole e meschine astuzie è fatta la leadership del capo. E accade peraltro che certi leader non riescano a vederli, i propri limiti, in quanto la loro compressa statura gli impedisce di fatto di librarsi oltre il muro degli zelanti lacchè che ha attorno: lo compiacciono, lo blandiscono, lo alimentano impedendogli la consapevolezza di certe miserie e finiscono per danneggiarlo irrimediabilmente.
La cecità di certi capi, convinti di possedere il partito come il padrone detiene il podere, impedisce loro di cogliere il senso genuino di una critica espressa per il bene comune e quest’ultima finisce talvolta col risultare insopportabilmente fastidiosa: la si isola, circoscrive, opprime. Fintanto che questo ovviamente sia possibile perché intanto la comunità osserva e continua a farsi un’idea: e allora quella critica diventa intollerabile e si agisce per sopprimerla. È l’insicurezza di una leadership precostituita a indurre in tentazione: impauriti capi di polistirolo, privi di cultura e in particolare di cultura politica, grigi e patetici burocrati incapaci di esprimere qualsiasi carisma, la cui spina dorsale è fatta di ambizioni sfrenate e livore: è da gente del genere che scaturisce la censura, la scelta di imputare agli altri le proprie incolmabili inadeguatezze, di dipingere un nemico assoluto che non esiste, nel disperato tentativo – così ben narrato da Orwell – di tener salda una comunità che resta dubbiosa e che sempre lo resterà perché nulla può imbrigliare il pensiero e lo spirito critico dell’uomo.
Non limitiamo la nostra fantasia e proviamo prudenzialmente a ipotizzare persino di peggio, perché certe cose purtroppo accadono e sulla stampa abbiamo letto di scandali che hanno riguardato non solo paesi lontani: se quel capo andasse ancora oltre, assumendo i comportamenti tipici delle nullità che si illudono di aver raggiunto una posizione di potere, ritenendo persino di potersi permettere il lusso di pronunciare liberamente battute sessiste e omofobe, di offendere la dignità e l’intelligenza degli altri, di minacciare addirittura, di esercitare financo scomposte e scandalose avance a colleghe e colleghi più giovani, come ci si dovrebbe regolare? Ecco che il confine tra coerenza e incoerenza finisce coll’essere assai più sfumato, così come quella che un tempo poteva apparire la netta demarcazione tra lealtà e slealtà: perché esistono la coerenza e la lealtà verso un progetto e il suo capo, così come la lealtà e la coerenza verso se stessi e una certa formazione umana e personale.
Non che io voglia con questo giustificare la politica e i suoi tradimenti, il trasformismo estremo che da tempo monopolizza il nostro sguardo, il consociativismo politico che insopportabilmente ci asfissia: vuole essere solo un invito a provare a leggere tra le righe, ad andare un pochino oltre con la vista, a scavare in un quadro che potrebbe apparire semplice e lineare, ma che in realtà è assai più sfaccettato e complesso.
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