Marco Armiero ha diretto per dieci anni il laboratorio di scienze umane dell’ambiente del Politecnico di Stoccolma. Si è specializzato in conflitti ambientali (famoso il suo L’era degli scarti. Cronache dal Wastocene, per Einaudi) e oggi è professore all’Istituto di storia della scienza dell’Università Autonoma di Barcellona. Nel suo ultimo saggio ha ragionato sulla vicenda del Vajont, a 60 anni dalla strage che il 9 ottobre 1963 provocò la morte di 2000 persone travolte dall’ondata d’acqua causata da una frana precipitata nel bacino della grande diga omonima. La tragedia, dal suo punto di vista, “è la perfetta illustrazione di come nei disastri ambientali sono i subalterni a pagare il conto”. Nel caso Vajont tutto ciò è scritto nel paesaggio: in quelle milioni di tonnellate di cemento alzate per costruire la diga, oggi in disuso, e nelle lapidi delle vittime.
Perché il Vajont è definito un disastro ambientale “innaturale”?
Che fosse “innaturale”, nel senso che fu causato dagli umani, lo denunciava già lucidamente Tina Merlin sull’Unità di quegli anni, mentre la stampa mainstream, con colossi come Giorgio Bocca, Dino Buzzati e Indro Montanelli, continuava a parlare di disastro naturale. Ma nella mia interpretazione aggiungo che il Vajont è stato un effetto di sistema. Non il frutto della corruzione, dell’arroganza o degli errori di uno o più individui, ma il prodotto di un modello economico e politico che ha messo la salvaguardia del profitto per pochi su un gradino più alto della vita dei molti.
Per certi versi la storia del Vajont sembra una tragedia greca, infarcita di presagi, previsioni e allarmi su quello che sta per accadere. Chiariamoci, se il tema diventa avere la certezza assoluta, matematica, che un certo evento disastroso possa verificarsi conoscendone in anticipo ogni dettaglio, allora è pacifico che questa certezza al Vajont non c’era: possiamo ragionevolmente sostenere che non si potesse determinare esattamente i tempi di caduta della frana, se si sarebbe spezzata in due blocchi o meno. Ma il tema non è questo. Il punto è che tutti sapevano per certo che una frana sarebbe caduta, e c’erano abbastanza saperi e conoscenze per applicare il principio di precauzione, che invece non fu applicato. Lo disse chiaramente il geologo Penta, membro della commissione di collaudo: le ipotesi sono due, una delle due è un disastro. E al Vajont si è sempre scelta l’ipotesi di rischio più ottimista. ‘Vi state nascondendo dietro le perizie’, scriveva il Pci Mauro Scoccimarro al ministro dei Lavori pubblici dell’epoca.
Quindi uno dei problemi è stata la complicità del sapere scientifico con gli interessi economici?
Sia Tina Merlin sia Sandro Canestrini, avvocato di parte civile che fece l’arringa poi pubblicata con il titolo Vajont genocidio dei poveri, parlano del Vajont come di un monumento perenne alla complicità della scienza con il potere economico e politico. Denunciavano il fatto che gli esperti italiani fossero compiacenti verso le esigenze e richieste del colosso idroelettrico Sade (Società Adriatica di Elettricità). Nel processo dopo la strage, quando il Gip Mario Fabbri incaricò una commissione di fare una prima perizia ottenne un report ‘innocentista’, che descriveva la frana come evento imprevedibile. E quando ne ordinò una seconda, faticò a trovare accademici italiani disponibili.
Cosa dovevano fare gli scienziati, dal suo punto di vista?
Assumersi la responsabilità di fermare il riempimento dell’invaso. C’erano geologi che avevano consigliato di restare più bassi con il riempimento. Invece, nel grande ‘supermarket dell’expertise’, la sade scelse i pareri che fissavano i limiti più in alto. L’Unesco nel 2008 ha definito il Vajont come una delle “cinque storie esemplari della mancanza di interdisciplinarietà”. Gli ingegneri non parlavano con i geologi, i periti non conoscevano le consulenze degli altri periti, e questo ha facilitato l’azienda nel perseguire i suoi interessi.
Senza parlare del fatto che non furono ascoltati gli allarmi della comunità locale.
Un geologo tra i protagonisti di questa vicenda, Eduardo Semenza, incaricato di studiare le pendici del Toc (il padre Carlo aveva costruito la diga), in un libro pubblicato a inizio 2000 rimprovera a Tina Merlin di aver commesso errori dal punto di vista geologico. Il problema però non è che Merlin non avesse un dottorato in geologia, ma che la comunità scientifica dell’epoca, di fronte agli allarmi che venivano dalla popolazione e dalla stampa, non si sia mobilitata.
La scienza funziona quando è libera dai compromessi col potere politico. In disaccordo con molti colleghi, io penso che la scienza funzioni meglio quando sta dalla parte di chi è marginale. Ad esempio molte malattie professionali sono state scoperte da medici che si sono messi dalla parte degli operai, per dire. Servono reti di expertise al servizio dei cittadini e non delle grandi aziende. Serve quello che Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz hanno definito post-normal science. L’idea, cioè, che in contesti ad alta incertezza gli esperti debbano consultare la comunità interessata dal problema scientifico che si pongono. Se questo principio si fosse usato sul Vajont non sarebbe avvenuta la strage. Un esempio contemporaneo di questo dilemma è l’alta velocità Torino-Lione.
Vede analogie con i conflitti ambientali di oggi?
All’epoca del Vajont, dimostrare che una montagna è caduta in un bacino elettrico e che l’evento era stato previsto non è semplice. Ho toccato con mano il problema quando mi sono occupato della Terra dei fuochi e dei rifiuti tossici a Napoli: perfino i magistrati mi dicevano che non avevano risorse adeguate per dimostrare le contestazioni. La dinamica è sempre la stessa: l’onere della prova spetta alla vittima. Se vivi davanti a un petrolchimico spetta a te dimostrare che il cancro che ti è venuto sia dovuto all’impianto inquinante, non alla multinazionale dimostrare che le sue attività non hanno impatto sulla salute. Tutto ciò nel contesto di una enorme sproporzione di mezzi: perché la Sade ieri e le grandi aziende oggi hanno dalla loro parte il fior fiore dell’accademia e dell’avvocatura, in Italia come altrove.