Questo pensiero di Miuccia Prada ci invita a riflettere su quanto abbiamo visto nelle ultime fashion week di Milano e Parigi: le collezioni Primavera-Estate 2024 presentate dai brand non sono state semplici rassegne di abiti, ma autentiche finestre sulle dinamiche economiche e culturali che stanno plasmando il mondo della moda odierno
“La moda è un po’ come la politica: in politica decide la maggioranza degli elettori, però ci sono anche quelli che non votano. Loro, in che cosa credono? Allo stesso modo, quanta gente si allontana dalla moda perché trova che sia diventata banale? Ecco, penso che si debba ascoltare anche loro. Perciò dico che c’è spazio per la complessità, l’intelligenza, la creatività e le idee. Ma per raccontare ciò in cui si crede, serve una propria voce”. Con la lucidità e la schiettezza che la contraddistinguono, Miuccia Prada ha centrato il punto, rappresentando con una metafora calzante lo stato attuale del mondo della moda. Queste sue parole, dette in un’intervista a Repubblica poche ore prima della sua sfilata parigina di Miu Miu, sono la perfetta sintesi di quello che abbiamo visto in questo mese di sfilate, in particolare proprio sulle passerelle di Milano e Parigi.
Proprio come accade con le elezioni politiche, infatti, a dettare la linea nella moda sono i gusti dei compratori. Ma cosa succede se questa “maggioranza” a cui si dà seguito è per lo più composta da quell’1% della popolazione mondiale fatto di privilegiati che possono permettersi di acquistare abiti e accessori ormai in vendita a prezzi sempre più esorbitanti e quindi inaccessibili ai più? Senza contare, che sono proprio questi a fare spesso il fatturato dei marchi, comprando quella moltitudine di accessori (dall’occhiale alla borsetta, passando per profumi, portafogli e cinture) in vendita al cosiddetto “primo prezzo”.
Ecco allora che questo pensiero di Miuccia Prada ci invita a riflettere su quanto abbiamo visto nelle ultime fashion week di Milano e Parigi: le collezioni Primavera-Estate 2024 presentate dai brand non sono state semplici rassegne di abiti, ma autentiche finestre sulle dinamiche economiche e culturali che stanno plasmando il mondo della moda odierno.
Cominciamo proprio da alcune considerazioni economiche: è innegabile che la mappa mondiale del lusso stia subendo una significativa evoluzione. I mercati europei che un tempo sembravano prosperare e promettenti ora devono fare i conti con un’ampia gamma di rischi, dall’instabilità politica ai cambiamenti climatici. In risposta a questa complessa realtà, le collezioni di moda presentate riflettono per lo più una tendenza verso l’essenzialità, un’aura “controriformista” propria di un sistema che sta attraversando un profondo cambiamento e sta cercando di ridefinire il suo ruolo e la sua identità. Di fatto, le grandi maison si sono rintanate nel loro “rifugio” sicuro, il proprio heritage, perché, in tempi di incertezza, i consumatori cercano beni che siano sia durevoli che di valore, rappresentanti di uno stile senza tempo piuttosto che effimeri capricci legati alle tendenze del momento.
Questo approccio può essere interpretato come un tentativo di offrire ai clienti una sensazione di familiarità, ma solleva anche interrogativi sulla capacità di stimolare un interesse duraturo che esuli dalla ripetitività. Emblema di questa moda rassicurante e minimalista, troviamo Maria Grazia Chiuri per Dior e Anthony Vaccarello per Saint Laurent, ma anche Hermés (che pure ha portato in passerella un guizzo di fantasia), o i nostrani Dolce e Gabbana, Versace e Gucci. Tutti hanno puntato sulla sartorialità, sull’altissima qualità ma soprattutto sulla propria tradizione, con pezzi d’archivio rivisitati e riproposti pressoché identici. Dall’altro lato, vediamo l’affermazione di designer di culto come Demna Gvasalia da Balenciaga, Rick Owens e Rei Kawakubo che, operando al di fuori delle logiche convenzionali, parlano a un pubblico più ristretto ma altamente fedele. Nel mezzo spiccano brand come Marni e Undercover che invece in questa stagione hanno puntato tutto sulla creatività, proponendo collezioni poco portabili ma regalando al pubblico presente alle loro sfilate la magia del sogno.
Ci sono poi le eccezioni, come Pierpaolo Piccioli con Valentino, Jonathan Anderson per Loewe, Daniel Rosberry con Schiaparelli e Matthieu Blazy da Bottega Veneta, che sono la conferma che è possibile creare universi distinti all’interno delle regole della moda contemporanea. In un mondo in cerca di equilibrio tra tradizione e innovazione, questi designer si distinguono per la loro capacità di rendere straordinario ciò che è familiare, coniugando la maestria artigianale con la propria visione stilistica. Hanno conservato l’intrinseca capacità di affascinare, stupire, incuriosire, stimolando un interesse nel pubblico a prescindere dal fatto che questo possa coincidere o meno con i loro compratori. E lo si evince da come i giovani guardano e parlano di questi brand sui social.
Ed è proprio a loro, ai giovani, che la moda dovrebbe guardare. Sì, perché la moda intrinsecamente legata al concetto di futuro e questa relazione si manifesta incarnando una visione dell’avvenire. Visione che è stata, appunto, assente dalle passerelle. Basta guardare all’onnipresenza di déjà-vu, dagli abiti alle location roboanti fino alla presenza delle super top model degli anni ’90 un atto di nostalgia che suggerisce una mancanza di coraggio, oltre che di idee fresche. E non a caso Vanessa Friedman, critica di moda del New York Times, e Sabato De Sarno, nuovo direttore creativo di Gucci, si sono trovati entrambi (in contemporanea) alla presentazione della nuova collezione di Quira, il brand di Veronica Leoni arrivato finalista all’LVMH Prize.
Riuscirà la moda a rinnovarsi, ascoltando le esigenze dei consumatori e abbracciando una visione più autentica e realmente inclusiva (a partire dai prezzi)? Purtroppo, temiamo di sapere già la risposta ma continuiamo a sperare che possa tornare presto ad essere sia un riflesso della realtà che un’immagine dell’immaginazione.