Nemmeno dopo sessant’anni il ricordo del disastro del Vajont può diventare un freddo esercizio della memoria. Le quasi duemila vittime dell’onda apocalittica che la frana del Monte Toc provocò la sera del 9 ottobre 1963 precipitando nell’invaso, sono una ferita che non appartiene ancora alla storia, ma al presente di un’Italia sconvolta quasi ad ogni stagione dalla natura e dagli effetti atmosferici.

Arcangelo Francesco Violo, presidente dei geologi italiani, qualche giorno fa ha partecipato ad un convegno organizzato dalla categoria proprio a Longarone per riflettere su ciò che ha significato il tragico paradosso di una diga che resse ad un urto tremendo, molto superiore rispetto alle forze per cui era stata concepita, eppure fu la causa della più grande tragedia italiana. Ora spiega a ilfattoquotidiano.it: “Fu una lezione ed un monito importante per il presente e il futuro. La valutazione dell’ambito territoriale significativo deve costituire un elemento imprescindibile nella realizzazione di una grande opera quale era appunto la diga del Vajont, all’epoca la più alta al mondo”. Non basta fare bene una diga, bisogna verificare dove viene collocata. “Le criticità geomorfologiche al contorno dell’opera erano state sottovalutate. Non possiamo dimenticare che in questi decenni sono quasi 10mila le persone che hanno perso la vita in alluvioni e terremoti, con danni economici stimati in circa 300 miliardi di euro, oltre i danni sociali che si ripercuotono per generazioni”.

I geologi: “Non ripetiamo gli errori del passato”
Se una montagna collassa in un modo che non fu imprevisto, la scienza si interroga sulla propria utilità e sulla gestione economica delle opere umane. “Oggi si registra, fortunatamente, una maggiore sensibilità e consapevolezza sui temi della sostenibilità tecnica ed ambientale delle opere e sulla necessità di approfondite conoscenze geologiche di base per una corretta localizzazione e scelta tra le alternative progettuali. Non possiamo ripetere gli errori del passato. Serve un approccio di sostenibilità ambientale e tecnica, che tenga conto di costi e benefici, non solo economici in senso stretto, ma per la collettività”. In una parola, serve una pianificazione, a cui la geologia ha dato un contributo anche grazie alla tragedia. Il presidente Violo ne è convinto: “Il Vajont ha segnato uno spartiacque nell’evoluzione delle conoscenze geologiche, delle applicazioni della geologia, dando inizio alla moderna geologia. Le nuove geotecnologie, infatti, consentono di fornire dati e modelli interpretativi affidabili a supporto delle progettazioni”.

Semenza, lo studioso che aveva capito

Carlo Semenza

In qualche modo i geologi si sono riconciliati con Longarone. Eppure sessant’anni fa la colpa non fu della scienza. Al convegno di Longarone ha preso parte il geologo Pietro Semenza. Il nonno Carlo Semenza (morto nel 1961) fu il progettista della diga. Il padre Edoardo, geologo, scoprì nel 1959 la “paleofrana” del Monte Toc lanciando l’allarme rimasto inascoltato. Pietro Semenza ha portato una testimonianza civile di grande valore. “Mio padre mi ha confessato una volta che pregava tutti i giorni per le vittime, perché nonostante questi studi approfonditi che erano riusciti anche a inquadrare il problema geologico e riconoscere l’esistenza della ‘paleofrana’ ben 4 anni prima della grande frana del 1963, riteneva che tutto ciò non era riuscito ad evitare la tragedia. In tutta la sua attività accademica di insegnamento ha cercato di profondere questa sua conoscenza agli studenti nell’Università di Ferrara, in modo che dalla conoscenza si potessero evitare simili disastri”. Su Semenza a individuare la fessura perimetrale della frana, segno dell’enorme massa che stava scivolando verso valle sopra uno strato di argilla. Ne quantificò il volume in 250-270 milioni di metri cubi. Più o meno la stessa massa che poi precipitò nel lago provocando la devastante ondata. Quando il nonno Carlo morì, a Edoardo non venne rinnovata la consulenza con Sade. Per questo l’allarme non ebbe seguito, nonostante le successive avvisaglie. Cosa ha insegnato il Vajont? “Tante cose, ma innanzitutto che gli studi geologici sono essenziali nella fase di impostazione dell’opera – risponde Pietro Semenza a ilfattoquotidiano.it – Vanno poi approfonditi e il monitoraggio deve continuare in fase di esercizio. Nel caso specifico il livello del lago è stato innalzato troppo ed è stato completamente sottovalutato il rischio. La zona andava evacuata”.

I processi infiniti
I numeri del disastro del Vajont sono agghiaccianti. Le vittime furono 1910, praticamente vennero cancellate Longarone, Erto e Casso. Una distesa limacciosa di fango ricoprì le case, le chiese e i palazzi. Fu innescata una serie interminabile di procedimenti giudiziari, prima penali, poi civili. Solo nel 2000 lo Stato, l’Enel e la Montedison hanno firmato l’accordo definitivo per il risarcimento delle vittime e dei danni (soprattutto dei Comuni). In totale si trattò di 900 miliardi di lire. Nel frattempo era sparita Sade, concessionaria delle opere idrauliche del Grande Vajont, mentre le cause civili avevano dovuto attendere la conclusione del processo penale, che avvenne soltanto con la sentenza di Cassazione del 1971, emessa sette anni e mezzo dopo la tragedia, due settimane prima che scattasse la prescrizione dei reati. Fino alla Cassazione avevano resistito 69 parti civili, ma non tutte fecero poi la causa civile. I risarcimenti grazie alle transazioni erano stati di tre milioni di lire per la perdita di un coniuge, un milione e mezzo per ogni figlio, 800mila lire per fratello o sorella conviventi.

La vicenda giudiziaria del Vajont è un pozzo senza fondo. Basti pensare che la prima perizia concluse che la frana non era prevedibile. L’accusa dovette ricorrere ad esperti stranieri perché in Italia nessuno studioso era disponibile. La conclusione fu opposta e indicò che la prevedibilità c’era, eccome. I reati contestati dal giudice istruttore Mario Fabbri furono disastro colposo di frana aggravato dalla prevedibilità dell’evento, inondazione e omicidi colposi plurimi. A giudizio vennero rinviate 11 persone. Processo tormentato, finito a L’Aquila nel 1968 per legittima suspicione. Il primo grado infligge circa duemila giorni di carcere, uno per ogni morto del Vajont, ma la prevedibilità non è riconosciuta e vengono esclusi i reati di frana e inondazione. Nessuno sconterà in cella. Le condanne più gravi (sei anni di reclusione) colpiscono i tre imputati principali, Alberico Biadene, Curzio Batini e Almo Violin, praticamente solo per aver omesso l’allarme. In appello le pene sono leggermente ridotte, ma viene stabilita la prevedibilità dell’evento (frana, inondazione, omicidi colposi) e così si aprono le porte ai risarcimenti. Con la Cassazione arrivano due condanne definitive: cinque anni ad Alberico Biadene (Enel-Sade), tre anni e otto mesi a Francesco Sensidoni (ministero dei Lavori Pubblici). Entrambi beneficiano di un condono di tre anni.

Don Ciotti: “Fu una strage di Stato”
Don Luigi Ciotti, cadorino di nascita, emigrato bambino in Piemonte, una settimana fa ha celebrato una messa nel cimitero di Longarone. Ha usato parole severe: “Quella è stata una strage di Stato. La logica mafiosa non è solo quella delle organizzazioni criminali, ma anche quella del potere. Quando ti nascondi dietro manipolazioni e dietro menzogne… Incartamenti a non finire, pareri camuffati. Tutto ciò ha permesso questi morti”. Per non far vedere che se la prendeva solo con gli uomini, don Ciotti ha concluso l’omelia: “Dio, dove ti sei nascosto quella sera del 9 ottobre 1963? Dov’eri? La fede non esclude il lamento, la rabbia, la contestazione, il dubbio anche il più tremendo”. Ma prima una stilettata alle grandi firme del giornalismo. “L’informazione non diede una mano: meravigliosi articoli di grandi scrittori, ma senza cenno alle gravi responsabilità che c’erano dietro questa storia. Dagli scritti si evidenziava solo la colpa della natura. Per fortuna che c’è stata quella meravigliosa donna di questa terra, Tina Merlin, che denunciò tutto, con largo anticipo, ma non venne ascoltata, anzi venne denunciata”.

Quando Tina Merlin disse: “Fu colpa dell’uomo”
La giornalista dell’Unità fu una voce nel deserto: “Non riesco a dimenticare. Il Vajont mi ha profondamente cambiata, tanto da farmi scrivere il giorno dopo la catastrofe che mi sentivo in colpa per non aver fatto di più per impedire il compimento della tragedia. Magari fossi riuscita a turbare l’ordine pubblico. Eppure avevo fatto del mio meglio”. Così quando i giornalisti vennero insigniti con una medaglia del Comune di Longarone, lei la rifiutò. Il figlio Toni Sirena lo ha spiegato in un articolo. “Quando il Comune di Longarone decise di consegnare un riconoscimento a ‘tutti i giornalisti’ che erano stati in quei giorni sul Vajont, mia madre lo rispedì al mittente, perché in quei giorni, sul Vajont, c’era chi aveva scritto che non c’erano colpe, se non quella, imperscrutabile e ingiudicabile, della ‘natura crudele’, o che aveva additato agli italiani gli ‘sciacalli comunisti’ che speculavano sulla tragedia. I nomi? Dino Buzzati, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, solo per citare i più celebri”. Non a caso, cinque lustri dopo il disastro la giornalista autrice del libro Sulla pelle viva, aveva detto: “Tutti sappiamo ormai, senza ombra di dubbio, che la tragedia del Vajont è stata colpa degli uomini. E non voglio su questo ritornare, se non per augurarmi che essa sia stata e sia in avvenire raccontata in maniera veritiera alla generazione cresciuta dopo e a quelle che verranno”.

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