C’è un altro punto di vista sulla guerra che merita di essere esplorato. Quello della rete Al Jazeera. Non tanto per capire le ragioni della guerra, quanto per capire le ragioni degli altri. Una giornata davanti allo schermo non serve solo a vedere Al Jazeera in sé ma anche Al Jazeera in me, cioé a cogliere le analogie tra la narrativa degli eventi adottata dalla rete filo-palestinese con quella delle nostre tv, sempre più filo israeliane.
Sul telefonino, Youtube ci avverte subito con un alert intermittente: “Al Jazeera è supportata in tutto o in parte da finanziamenti pubblici Qatariani”, se ci clicchi sopra, Google spiega che lo fa per tutti. Sarà. Effettivamente la tv di Doha (nata nel 1996, genera a fine 2016 il canale in inglese poi denominato ‘Al Jazeera Intl’), deve ringraziare l’Emiro Tamim bin Hamad al-Thanii se può impiegare 3mila persone in 95 paesi raggiungendo 430 milioni di case, più telefonini e pc.
Piccolo preambolo sull’editore: il Qatar è vicino ad Hamas ed è il rivale locale dell’Arabia Saudita, in avvicinamento a Israele come gli Emirati Arabi. Trump mise all’angolo il Qatar con un embargo adottato per far contenti i sauditi. Così Doha si è avvicinata ancora di più all’Iran con il quale condivide il più grande giacimento di gas del mondo. L’Iran è il grande sostenitore in Libano di Hezbollah e in Palestina di Hamas e del gruppo PIJ, Palestinian Islamic Jihad. In sostanza il ‘padrone’ di Al Jazeera è amico dei palestinesi e degli iraniani cioé degli arci-nemici di Israele, a sua volta di fatto ormai alleato dei sauditi in un triangolo che vede al vertice gli Stati Uniti.
La copertura della guerra Hamas-Israele risponde in pieno al posizionamento dell’editore di Al Jazeera. Basta ascoltare il commento a caldo dell’ospite americano di origini palestinesi, il giornalista Ali Abunimah, fondatore del blog Electronic Intifada, per capire l’aria che tira. Per lui Israele sta portando avanti politiche di apartheid e genocidio e “i crimini non sono solo sua responsabilità ma anche di Joe Biden e degli europei che sostengono il Governo”. Ali Abunimah, domenica sera, mentre scorrono le immagini dei rapimenti e delle uccisioni, commenta “questo è il risultato di garantire impunità a un regime che non ha rispetto dei diritti dei palestinesi(…) dobbiamo dire chiaramente che Israele e i suoi sostenitori sono i soli responsabili di quello che sta accadendo. Stanno raccogliendo quello che hanno seminato”. Il conduttore lo ringrazia di avere condiviso il suo punto di vista con i telespettatori. Poi c’è Youmna El Said, la giovane inviata famosa per il razzo che ha colpito un palazzo alle sue spalle domenica in diretta durante il collegamento.
Non è la prima volta che le accade. In rete è possibile trovare un altro video postato dalla tv pubblica turca, TRT World, del maggio 2021, in cui la freelance che opera a Gaza, sempre con il caschetto in testa, prega i telespettatori a mani giunte e con voce commossa: “Per favore io voglio mandare un messaggio al mondo. Prima di giudicarci e di dire che noi siamo terroristi accertatevi di vedere la realtà da tutti i lati. Non ascoltate solo i media occidentali ma entrambe le parti. Non credete ai messaggi degli israeliani senza vedere la nostra parte …” proprio in quel momento saltava in aria con fragore un palazzo alle sue spalle. El Said gridava: “Vedete quel palazzo che è stato totalmente distrutto da un raid aereo è un palazzo di 14 piani la Al Shoroq Tower”. Due anni e mezzo dopo quell’invito a guardare l’altra parte della storia Houmna Elsaid si collega più volte per Al Jazeera da una delle 44 scuole trasformate in rifugi per ospitare 22mila civili. Circondata da uno sciame di ragazzini che ridono e giocano intorno alla telecamera, felici sotto le bombe con una palla in mano, racconta che le mamme hanno ricevuto sul telefonino il messaggio degli israeliani. Intimava di lasciare le loro case immediatamente prima dell’attacco. I bambini non hanno preso nulla. Dice: “C’è grande paura perché qui di fronte c’è una Stazione di Polizia. La gente è terrorizzata che possa essere un obiettivo delle Forze israeliane”. Il conduttore la saluta pieno di compassione.
Tocca all’ambasciatore palestinese in Regno Unito Husam Zomlot. Il conduttore parte neutro (“Condividi quello che ha fatto Hamas?”) il diplomatico no: “Non è la domanda giusta” e inizia a parlare delle cause profonde della crisi palestinese, un mantra su Al Jazeera. Poi il conduttore fa finalmente la ‘domanda giusta’. Chiede se il numero dei morti israeliani aiuterà gli attori internazionali a capire che è giunto il momento di cambiare atteggiamento e fare le mosse giuste. Ecco così i 700 morti diventano nella risposta “un’opportunità per tutti di capire che i palestinesi hanno diritto di combattere e lo faranno e l’occupazione deve finire e deve esserci lo stato palestinese con Gerusalemme capitale”.
Arriva il professore dell’università del Cairo e il conduttore chiede un commento sul fatto del giorno, l’uccisione di due israeliani ad Alessandria: “Perché i militari egiziani sparano sui turisti israeliani?”. Il senso della risposta è “Perché non si vede la soluzione di questo conflitto in Palestina da 75 anni”.
Parte il collegamento con l’altro inviato a Gaza, Tareq Abu Azzoum. Il giovane collega con il giubbotto e l’elmetto parte con “i crimini degli israeliani contro i palestinesi” e racconta il destino di una famiglia palestinese cancellata da un missile degli israeliani, erano in 22, di cui sette bambini. A un certo punto arriva un ospite dell’altra parte: il parlamentare israeliano Danny Danon. Il conduttore gli chiede subito delle vittime da entrambe le parti. Lui reagisce così: “Non puoi dire ‘da entrambe le parti’, stiamo ancora contando i morti di un attacco barbaro non provocato di Hamas. Hanno rapito un bambino di due anni!”. Il conduttore lo ferma: “Tu dici attacco non provocato ma non sarà il caso di considerare le cause e gli effetti dell’occupazione che dura da 75 anni?”. Il parlamentre ribatte: “Noi abbiamo lasciato Gaza 18 anni fa completamente. Non c’è più una comunità ebraica in Gaza e guarda cosa è accaduto. Hamas controlla Gaza!”. Il conduttore lo interrompe ancora: “Ma sono completamente bloccati”. Il parlamentare ribatte: “Perché non parlano dell’Egitto, con il quale confinano, ma se la prendono solo con Israele? Perché non c’è logica. Hamas, come l’ISIS, vuole solo colpire noi” e conclude “la mia opinione è che dobbiamo sradicare Hamas così i soldi che arabi ed europei danno ai Palestinesi non andranno più a costruire tunnel e comprare armi”. Il conduttore vira sulle colpe dell’intelligence e sui problemi militari di Israele ma è l’unico dibattito nel quale si accende un po’ la discussione. A parte il membro della Knesset e un analista israeliano, Presidente del think tank Mitvim, Nimrod Goren (anche lui rimbrottato dal conduttore quando parla di attacco non provocato) gli analisti sono tutti dalla parte dei palestinesi.
L’inviata da Ramallah, Nida Ibrahim, si collega da una manifestazione pro Hamas e sembra uno dei manifestanti quando elenca i torti subiti dalla popolazione: gli occupanti israeliani hanno isolato ogni città palestinese dall’altra. Firma il pezzo con il suo nome e quello della rete poi il luogo: “Ramallah, Occupied West Bank”.
C’è spazio per una docuserie sugli accordi di Oslo tra Rabin e Arafat sotto l’egida Usa di Clinton 30 anni fa. Poi c’è un estratto del discorso di Papa Francesco all’Angelus seguito da una carrellata di immagini di manifestazioni festanti per le morti israeliane. Si parte da Istanbul con le bandiere di Hamas, ancora più numerosa la folla festante a San’a’, capitale dello Yemen, poi il Kuwait e infine Teheran con la corrispondente Dorsa Jabbari che mostra le manifestazioni di giubilo e racconta il comunicato di supporto della Guida Suprema, Ali Khamenei. In serata poi ci sarà un servizio dagli Stati Uniti con le manifestazioni pro palestinesi.
Anche la contabilità delle vittime per Al Jazeera deve partire da lontano. La grafica non mostra solo le vittime del 2023 (700 israeliani e 400 palestinesi) ma quelle del 2008-2009 (1.400 palestinesi contro 13 israeliani); del 2014 (2.100 palestinesi e 73 israeliani); del 2021 (250 contro 13) e così via. Alla fine il conteggio dell’intero periodo escluso l’ultimo attacco, per Al Jazeera, è di 6407 palestinesi morti contro 208 israeliani.
Al di là dei numeri sono le immagini e i racconti a rendere umane le vittime e immorale l’azione di chi le ha uccise. Quando la conduttrice si collega con Refaat Alareer, uno scrittore che vive a Gaza, lui racconta la notte di domenica sotto le bombe. Ricorda che le bombe israeliane cadranno a Gaza dove vive un milione di bambini, il 50 per cento della popolazione di 2,2 milioni. Fa l’esempio di una famiglia sterminata la prima notte di guerra dai razzi israeliani: “erano 18 e tra questi c’erano 9 bambini, tre generazioni sono state annientate da una sola bomba di fabbricazione americana”. Racconta la vita della popolazione senza elettricità, senza acqua, già poverissima, senza cibo per l’indomani. Il telespettatore è portato a empatizzare con le vittime dell’attacco israeliano non con le vittime di Hamas.
La prospettiva di al Jazeera è sempre ribaltata rispetto alla nostra. Il servizio sulle elezioni in Baviera è centrato, come accade anche in Italia, sul tema dominante della campagna elettorale, l’immigrazione. C’è un operaio tedesco che si lamenta perché il Governo fa troppo per i nuovi arrivati e nulla per lui. Ma Al Jazeera mostra le abitazioni create dal Governo per i rifugiati come un segno di civiltà e offre ai tanti immigrati impauriti per l’ascesa dell’estrema destra la possibilità di far sentire il loro punto di vista sulle elezioni politiche imminenti.
Lo stesso ribaltamento si avverte per la guerra Israele-Hamas. Il corrispondente da Londra, Harry Fawcett, sposta l’attenzione dalle vittime di Hamas alla copertura mediatica sulle vittime medesime in Europa. Spiega che gli europei, danno ampio spazio al possibile sequestro di un britannico o all’uccisione di una ragazza tedesca. Sta parlando della 22enne Shanie Louk. Fawcett ricorda che compare nei video sciocccanti di Hamas sui social ma non mostra le immagini, effettivamente troppo brutali, del trattamento subito da questa ragazza di padre israeliano e madre tedesca. I miliziani di Hamas l’hanno rapita mentre ballava, uccisa e mostrata seminuda come un trofeo su un pick-up per le strade di Gaza. Prima della foto del rave party di sabato al confine con Gaza aveva postato su Instagram una foto della sua vacanza sul Lago d’Iseo. A Sala Marasino aveva fotografato un tramonto e aveva postato il messaggio “Bella Italy”, con le faccette e i cuori. Su Al Jazeera non c’è tempo per raccontarlo. Soprattutto non c’è l’empatia riservata alle famiglie palestinesi di Gaza.
La tecnica di narrazione televisiva in fondo è simile a quella dei media mainstream occidentali a parti invertite. Lo spiega bene, proprio intervistato lunedì da Al Jazeera, Jan Egeland, del Norwegian Refugee Commetteee. Lo intervistano perché il suo ente norvegese è impegnato in Cisgiordania ad aiutare la popolazione. Ma quando il conduttore gli chiede perché i leader occidentali non parlano mai delle radici profonde, Egeland risponde con una riflessione che somiglia a una lezione di giornalismo: “Noi che siamo operatori umanitari, neutrali, sul campo, al centro di questo fuoco incrociato, vediamo quel che sta accadendo: ci sono due racconti polarizziti. Da una parte si vedono solo le moschee attaccate mentre in occidente si vedono solo i civili e i bambini israeliani attaccati dagli uomini di Hamas armati. Queste sono le due immagini opposte. Entrambi i racconti deumanizzano i protagonisti”. Forse non è un caso. Perché poi è più facile uccidere i ‘nemici deumanizzati’ senza provare rimorso.