9 ottobre 1963: un’enorme frana si stacca dal Monte Toc nelle Prealpi bellunesi. Non creerebbe particolari danni se sotto non ci fosse una diga, la diga che sbarra il corso del torrente Vajont, dove la frana crea un’enorme onda d’acqua che supera lo sbarramento dell’invaso e si riversa a valle: muoiono 1910 persone. A distanza di sessant’anni vale la pena ricordare quel disastro per diverse ragioni.
La prima. Nel 1962 era stato istituito un ente pubblico che era diventato proprietario di tutti gli impianti elettrici d’Italia, nazionalizzando le varie imprese private: l’Enel. Bene, proprio a seguito di quella tragedia l’Enel fece eseguire delle perizie su tutti i suoi impianti idroelettrici, e cosa emerse? Emerse che lo sbarramento di uno di quegli impianti era stato realizzato su una paleofrana ed era a rischio di cedimento. Era l’impianto di Beauregard in Valgrisenche. Se avesse ceduto, l’enorme flusso d’acqua avrebbe travolto tutti gli abitati della Valgrisenche e si sarebbe riversato sul fondovalle. Difficile ipotizzare quanti morti avrebbe causato.
L’Enel decise ovviamente di svuotare l’invaso. Peccato che per realizzarlo l’impresa privata SIP (Società Idroelettrica Piemonte) avesse sommerso cinque borgate e altre due avessero dovuto essere abbandonate. La portata dell’invaso fu poi ridotta ad un decimo. L’impresa che aveva realizzato l’invaso del Vajont era la stessa che realizzò Beauregard.
E dire che in Italia si erano già verificati due disastri, ben prima del Vajont. Il primo fu il cedimento strutturale della diga di Gleno, in Val di Scalve, nelle Alpi Orobie: il 1° dicembre 1923 alle ore 7.15 la diga crollò. Sei milioni di metri cubi d’acqua, fango e detriti precipitarono dal bacino artificiale a circa 1.500 metri di quota, dirigendosi verso il lago d’Iseo e procurando la morte di almeno 356 persone. Il secondo episodio si verificò invece in Valle Orba, nell’Alessandrino, il 13 agosto 1935. Fu il crollo della diga di Molare che comportò la morte di più di cento persone.
La seconda. Gli sbarramenti degli invasi sono realizzati in cemento armato, ma, come qualsiasi opera umana, anche il cemento armato ha una durata. Esemplare in proposito la lettura del saggio Cemento. Arma di costruzione di massa di Anselm Jappe. Che ne sarà degli invasi, che sono stati realizzati nel 1900 e in buona parte nella prima metà dello scorso secolo quando arriveranno a fine vita? Prima di costruire nuovi invasi converrebbe pensare anche a questo aspetto.
E veniamo alla terza ragione: le nuove dighe. Dopo un lungo periodo in cui di nuovi impianti non si è quasi parlato, oggi le dighe sono tornate di moda. E tutto congiura perché siano resuscitate, sia a causa del cambiamento climatico e quindi delle minori precipitazioni, sia al fine di produzione idroelettrica, la prima delle energie verdi. Facciamo una piccola premessa: al di là dell’aspetto non trascurabile della pericolosità e della durata delle opere, resta il fatto che le dighe comportano un consumo rilevante di suolo su terreni montani e quindi fragili, e alterano il deflusso dell’acqua: non sono opere da prendere alla leggera.
Detto ciò, nel 2021 fece notizia il progetto di Coldiretti, Enel, Eni e Cassa Depositi e Prestiti per la realizzazione di ben mille nuove dighe. Progetto ribadito dal presidente di Coldiretti Ettore Prandini quest’anno: “La siccità si combatte anche con un investimento volto a trattenere l’acqua piovana visto che oggi se ne riesce a trattenere solo l’11% di quella che cade. E la soluzione è la realizzazione di 1.000 bacini di accumulo. Ma la cosa importante sarebbe partire con i primi 100 nei prossimi anni con una buona portata di trattenimento dell’acqua piovana e lo sviluppo anche dell’idroelettrico“. E Prandini continua facendo un’affermazione quanto meno singolare e cioè che le dighe combatterebbero il dissesto idrogeologico. Sul che c’è francamente da dubitare.
Ma non solo dighe in generale: torna di moda nell’idroelettrico il pompaggio, che prevede la realizzazione non di una bensì di due dighe, una inferiore e una superiore, collegate da un canale che pompa acqua nei due bacini e produce energia elettrica solo quando necessita. È quello che accade ad esempio nel Vallone delle Rovine ad Entracque (CN), dove ai tempi dell’opera comparve una scritta significativa “Visitate la valle prima che l’Enel la distrugga”. Perché il pompaggio comporta la morte della vita in tutto il sistema di produzione. Torna di moda, dicevo: ne è un esempio Enel Green Power che vuole realizzare Pizzone 2 nella zona contigua al Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise e Valcimarra 2 in provincia di Macerata. E si muovono anche i privati.
Insomma, grande fermento sul fronte invasi. Detto dei progetti resta un quesito molto banale a monte: perché non pensare al risparmio della risorsa acqua? Non è infinita, lo sappiamo bene. Sarà sempre meno disponibile per via dei cambiamenti climatici e in particolare per la riduzione e la scomparsa dei ghiacciai. Non sarebbe il caso di intervenire sul suo utilizzo in agricoltura per avere colture meno bisognose di acqua? E di intervenire finalmente sulla rete idrica colabrodo? E di pensare innanzitutto al risparmio nel campo elettrico?
Noi ci comportiamo come se si potesse protrarre all’infinito il nostro stile di vita. Ma non è così!