Come un toro un po’ imbolsito, che caracolla sbuffando al centro dell’arena, in attesa di essere matado. Così il Torino di Urbano Cairo ha perso l’ennesimo derby e pascola svogliatamente al centro classifica della Serie A. Una squadra senza ambizioni o paure, senza infamia oppure lode. Semplicemente senza più il cuore proverbiale che rappresenta la sua indole. I numeri nel calcio non mentono quasi mai, e quelli del Torino nel derby raccontano di una squadra che ha smarrito la sua identità. Nell’era Cairo, i granata hanno un record semplicemente atroce nella partita più speciale per i suoi tifosi: su 29 stracittadine giocate, ne hanno perse addirittura 25, vinta solo una. Ovvio, si dirà, la Juventus è molto più forte e quello di Torino è il derby meno equilibrato della Serie A rispetto a Milano, Roma, Genova. Vero, ma fino a un certo punto: se nel decennio dei nove scudetti di fila la superiorità è stata schiacciante (e quelli fanno numero), ora il divario si è assottigliato. E comunque a maggior ragione da posizione di svantaggio il Toro avrebbe dovuto moltiplicare i suoi sforzi, esaltare quella che un tempo era la sua caratteristica migliore. Invece sembra ormai quasi l’opposto, che proprio nel derby i granata entrino in campo sconfitti in partenza. Sabato la Juve era in totale emergenza, senza l’intero attacco titolare (quanto a gioco e idee, quelli non ci sono da tempo). Eppure ha vinto ancora una volta senza particolare fatica, col solito gol da calcio piazzato che i giocatori granata sembravano attendere quasi con rassegnazione, per poi sparire dal campo senza reazione. La fotografia di una squadra che non regala più emozioni, perché forse non le prova.

Al di là dei problemi tattici, del valore specifico della rosa (sicuramente non eccelso), delle colpe di Juric e le responsabilità di Vagnati, è evidente che qualcosa nel Torino sia spento da parecchi anni. L’ultima volta che il Toro ha fatto parlare un po’ di sé era la squadra di Ventura, che conquistò l’Europa e regalò a Cairo l’unico derby della sua presidenza. Anche questo probabilmente non è un caso. Prima o dopo nulla da segnalare, encefalogramma piatto. Per carità, non è facile essere un club di questa fascia in Serie A. Troppo forte per non retrocedere, nella cui lotta infatti non si ritrova invischiata quasi mai salvo cataclismi, ma non abbastanza per puntare all’Europa (entrare nelle prime sei/sette è oggettivamente complicato, infatti è successo solo due volte negli ultimi trent’anni). La maggior parte dei campionati finiscono a gennaio e senza obiettivi concreti bisogna trovare altrove le motivazioni, nella qualità del gioco, nel legame coi tifosi, magari anche solo nella valorizzazione dei propri calciatori. Altre squadre come Sassuolo, Bologna, Verona ci sono riuscite negli ultimi anni a corrente alternata. Il Toro no. Nemmeno nel derby che potrebbe dare un senso a tutta la stagione, essere la partita dell’anno. E invece non lo è mai.

Questo forse è il cruccio maggiore per i tifosi granata, ma è solo una faccia della stessa medaglia. Quello di un progetto che semplicemente non funziona. Oggi non si capisce che cosa voglia essere il Torino di Urbano Cairo, a che cosa punti, che cosa sogni. Nonostante una piazza storica, una città importante, un presidente che al di là del patrimonio personale, per nome, reputazione, ruolo nel quadro politico-economico del Paese, è uno dei più importanti della Serie A. Senza scomodare l’Atalanta, caso più unico che raro fatto tutto di programmazione che oggettivamente al Torino (ma alla maggior parte delle squadre italiane) manca, i granata potrebbero trovare comunque la loro dimensione ad un livello più basso, senza andare in Europa (nessuno lo pretende), ma tornando a trasmettere qualcosa ai propri tifosi e dare un senso alle loro stagioni. A partire dal derby, ad esempio. Invece non è una squadra da Europa né da salvezza. Non spende ma nemmeno incassa, perché a Cairo non si può neppure imputare di averci fatto i soldi (gli ultimi bilanci si sono chiusi sempre in perdita). Non è una formazione vecchia, però non punta fino in fondo nemmeno sui giovani, come dimostra l’ultimo mercato dove per mancanza di idee o alternative l’acquisto principale è stato Duvan Zapata, ottimo giocatore chiaramente in parabola discendente, pagato anche parecchio (almeno a livello di ingaggio) e senza prospettive di valorizzazione, il colpo ideale per rimanere in questa mediocrità poco aurea, che non conviene a nessuno. Insomma, se non è né carne né pesce, non può scendere e nemmeno salire, perdere o guadagnare, soffrire o gioire, che cos’è oggi il Toro? Una passione, un ideale. Un ricordo.

Twitter: @lVendemiale

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