A 60 anni dall'ecatombe prevista e non prevenuta dall'uomo che la sera del 9 ottobre 1963 provocò 1910 morti in pochi secondi, Baldini + Castoldi ripubblica il libro del giornalista de L'Unità, morto nel 2013. Uno sguardo in prima persona a poche ore dal dramma e un j'accuse politico contro uno stato sordo e un intricato sistema istituzionale (professori universitari e funzionari di stato) che coprì le responsabilità della SADE
“Scarnificato il fianco della montagna, spariti i prati e i boschetti golenali, inghiottita la strada statale. Su in alto, all’uscita delle brevi gallerie ferroviarie, tratti di binari protesi al cielo, attorcigliati come sculture astratte. Il piccolo ponte sul torrente Maé intasato di tronchi, di brecciame. E altri cadaveri che galleggiano, poveri corpi ignudi”. Nell’epoca in cui un qualsiasi passante può filmare ogni sciagura anche la più immane come un terremoto o uno tsunami con uno smartphone, non ci facciamo nemmeno più caso. Ma le parole usate da Mario Passi, giornalista de L’Unità, mentre risale il Piave verso Longarone la mattina del 10 ottobre 1963 in un clima spettrale, fanno ancora spavento e gridano tutto il loro onesto valore di testimonianza oculare – non esistono riprese video, ma solo qualche foto – della tragedia del Vajont avvenuta 60 anni fa, alle 22 e 39 del 9 ottobre 1963.
Passi, appunto, è tra i primi testimoni ad arrivare alle luci dell’alba trovando il buio dell’umanità, modello Hiroshima: “Mi succede di vedere da vicino qualcuno di quei corpi tratti fuori dopo tante ore dall’acqua. Mostrano una delicata trama di vene rosse e azzurre sotto la cerea trasparenza della pelle. Non riesco a scacciare l’idea raccapricciante di agnelli scuoiati nelle macellerie”. Corpi che verranno ritrovati ovunque, decine di chilometri a monte, nel Cadore verso Cortina, e a vale verso Belluno. Vajont senza fine è così prima di tutto un testo autentico di testimonianza diretta, un documento della storia e per la storia, contatto e visualizzazione in prima persona, videocamera del telefonino di allora, di fronte a morte e distruzione.
Poi, il libro, è anche un forte j’accuse politico, legato alla battaglia che L’Unità fece attraverso le inchieste di Tina Merlin, sulle gravi negligenze e le responsabilità dei gestori e costruttori della diga, la SADE dell’illustre esperto di dighe, l’ingegner Carlo Semenza, come di un intricato ma robusto apparato istituzionale (atenei, docenti di geologia, apparati burocratici ministeriali, politici) che protesse la SADE stessa nel proprio delirio d’onnipotenza. Da un lato un tentativo “comunista” di difendere la povera gente contro il cieco potere democristiano; dall’altro un “ve l’avevamo detto” profetico, ma mai saccente. Già, perché ciò che si scopre nelle ore successive alla tragedia, e in che in parte Merlin aveva scritto sul quotidiano del Partito Comunista Italiano, Passi lo riassume con mirabile puntualità.
Tra SADE e Università di Padova avevano già fatto esperimenti con modellini in scala sulla possibile frana, e avevano capito, e comunicato ai funzionari di stato, che la situazione non era per nulla semplice. Eppure tutto va avanti: la megalomania di Semenza, il codazzo di docenti e funzionari accondiscendenti e i soliti rompiballe valligiani che dicono di aver paura di morire. Superate le prime ore, e i primi giorni, post tragedia, Passi ricostruisce con dovizia particolari tutta la vicenda giudiziaria che durerà anni e, almeno a livello di pubblica accusa dovrà richiedere perizie esplicative a esperti geologi e ingegneri all’estero, in quanto quelli italiani non si prestarono o minimizzarono le responsabilità della SADE o addirittura premettero sul pedale, come molti colleghi giornalisti di Passi più blasonati (attenzione, Giorgio Bocca ci fa una figuraccia), della “fatalità”. Del resto, Paolini, che col Vajont ha costruito architrave di carriera e nuovo corso del teatro civile, cita Brecht nella nota introduttiva: “Nella regola riconoscete l’abuso e dove l’avete riconosciuto procurate rimedio”.