Gli interessi economici e i legami internazionali rendono impossibile una mossa compatta dei Paesi musulmani a sostegno del popolo palestinese. Nelle ore in cui Hamas lancia appelli al mondo arabo per una mobilitazione di massa in favore della propria causa, secondo Michela Mercuri, docente di Cultura, storia e società dei Paesi musulmani all’università di Padova, è improbabile che i governi mediorientali si muovano convintamente e in maniera coordinata. Da una parte c’è la cosiddetta Mezzaluna sciita, composta da Iran, Siria e dal partito libanese Hezbollah, che sostiene in pieno l’attacco sferrato dai miliziani islamisti dalla Striscia di Gaza. Dall’altra, invece, una schiera di Stati musulmani che, con diversi gradi di coinvolgimento, sperano in una de-escalation che li tolga dall’imbarazzo di dover decidere tra la vicinanza al popolo palestinese e gli interessi economici con Tel Aviv.

Hamas ha chiesto sostegno al mondo musulmano. Crede sia possibile una presa di posizione compatta da parte di questi Stati?
Credo che non ci sarà un’azione compatta di questi Paesi, se non un maggiore invito alla moderazione nel caso in cui l’azione d’Israele dovesse dimostrarsi particolarmente cruenta nei confronti della popolazione. I tempi di quella Lega Araba così unita anche in chiave anti-israeliana sono finiti, quindi è chiaro che ognuno di questi attori pensa anche agli interessi economici che ha con Israele.

Nel suo appello, Hamas si rivolge in particolar modo a Siria, Giordania, Libano ed Egitto. Perché loro?
In primo luogo perché si tratta di Paesi confinanti. E in quanto Paesi confinanti, soprattutto per quanto riguarda la Giordania, la Siria e il Libano, accolgono già dal 1948 un’importante diaspora palestinese. Quindi Hamas intende far perno sulla popolazione palestinese che abita in questi Stati per aumentare il suo consenso e smuovere l’opinione pubblica, ovviamente non solo in questi Stati. È possibile che la popolazione accolga questo invito. Ad esempio, in Giordania una parte di essa si è mobilitata per chiedere a re Abdullah di annullare il Trattato di pace con Israele. È chiaro che poi dobbiamo considerare la posizione dei vari governi e la maggior parte di essi ha mantenuto una posizione piuttosto cauta sull’accaduto, nella maggior parte dei casi non condannando espressamente l’attacco, ma invitando le parti a una maggiore moderazione.

Interessante è il posizionamento della Turchia. Recep Tayyip Erdoğan si è autoproclamato anni fa difensore dei palestinesi, ma ha anche portato avanti un processo di normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv. Ora si propone come mediatore: crede che eviterà di schierarsi apertamente?
Erdoğan è uno degli attori che più di altri ha invitato alla moderazione, non si è schierato. Ha assunto questo ruolo di mediatore in diversi contesti, a volte gli riesce bene, altre volte meno, ma pensa di avere le carte per poter svolgere questo ruolo. Anni fa si è autoproclamato difensore della causa palestinese e una parte della popolazione turca è d’accordo, ma dall’altra parte ha importanti affari con gli israeliani. Mi riferisco al gasdotto Leviathan al largo delle coste d’Israele che dovrebbe portare il gas direttamente in Turchia. Si tratta di un affare molto importante per la Turchia e mettendo sul piatto della bilancia il sostegno ai palestinesi e gli affari, sicuramente Erdoğan pensa sia meglio mediare che prendere una posizione netta.

L’altro possibile mediatore è l’Egitto che nei giorni scorsi ha chiesto il rispetto dei diritti dei palestinesi. Come si comporterà in caso di invasione? Se le persone dovessero ammassarsi al valico di Rafah, su suggerimento di Israele, Il Cairo potrebbe decidere di aprirlo?
Anche l’Egitto ha una posizione molto particolare. Da un lato, nel 1979 ha firmato gli storici Accordi di Camp David con Begin, Sadat e Jimmy Carter che aveva mediato, avvicinandosi così molto a Israele e ricevendo così importanti elargizioni dagli americani. Dall’altro lato c’è una parte della popolazione egiziana, quella più vicina ai Fratelli Musulmani, che è legata alla causa palestinese. Va detto che, però, dal 2013 in Egitto governa Abdel Fattah al-Sisi che si è avvicinato molto allo Stato d’Israele. Come si comporterà in caso d’invasione? Credo che manterrà una posizione la più possibile imparziale. L’Egitto ha recentemente chiuso il valico di Rafah, l’unico che avrebbe permesso agli abitanti di Gaza di fuggire durante un’eventuale offensiva di terra israeliana. È chiaro che l’Egitto teme che 2 milioni di persone che vivono a Gaza si dirigano in territorio egiziano. È anche vero che in caso di un esodo massiccio dalla Striscia, l’Egitto potrebbe trovarsi costretto ad aprirlo su pressione delle varie opinioni pubbliche occidentali.

Chi si schiererà apertamente con Hamas sono Iran, Siria, Hezbollah e Qatar. Pensa che possano avviare un’offensiva nel nord d’Israele in caso di invasione di Gaza?
È difficile dire se Hezbollah, l’attore da attenzionare maggiormente, aprirà davvero un fronte nel nord d’Israele. Hezbollah è pronto, ma deve fare i conti anche con una popolazione che dal 2006, ossia dall’ultima guerra tra Israele e Libano, è davvero stanca di guerra. E quindi dovrà barcamenarsi tra queste due posizioni. Possiamo però ipotizzare che Hezbollah possa continuare a lanciare qualche missile, aprendo così un secondo fronte, e così frammentare le energie militari israeliane. Per quanto riguarda il Qatar, credo che in questo momento abbia un ruolo più ambiguo: è vero che continua a finanziare Hamas e che ospita il suo quartier generale, ma vedo difficile che possa schierarsi apertamente con Hamas. La posizione del Qatar mi sembra attendista. Inoltre, anche se ho diversi dubbi sulla sincerità della loro posizione, sembra che stia mediando per uno scambio di prigionieri tra Hamas e Israele. L’Iran, infine, credo che continuerà a fornire supporto e armi, ma non impiegherà i suoi uomini.

Dubbi emergono anche sulla posizione assunta da quei Paesi che avevano avviato la normalizzazione con Israele tramite gli Accordi di Abramo, ai quali si aggiunge l’Arabia Saudita. Si esporranno?
Ho qualche dubbio personale sulla genuinità del tentativo di avvicinamento dei sauditi a Israele, anche alla luce dell’accordo tra loro e l’Iran mediato dalla Cina. L’Arabia Saudita, finché questa situazione non sarà più chiara, rimarrà a guardare. Non è escluso che poi possa riprendere in mano il dossier. Per quanto riguarda gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco, sicuramente non si esporranno ma sono estremamente preoccupati per questa guerra.

Resta da capire come Onu, Ue e Usa riusciranno a mantenere la loro posizione di sostegno a Israele in caso di risposta “non proporzionata”. Se il numero delle vittime dovesse crescere velocemente lancerebbero messaggi a Israele chiedendo di frenare l’avanzata o rimarrebbero allineati indipendentemente dall’esito dell’invasione?
Su questo c’è da capire cosa si intende per “risposta non proporzionata” d’Israele. Cos’è proporzionato all’uccisione di mille civili, tra cui bambini? Hamas con questo atto di guerra ha causato un eccidio della popolazione civile mai visto in questi territori. E sta continuando. È chiaro che la risposta d’Israele sarà una risposta forte con lanci di missili, raid su obiettivi strategici e, forse, anche con un’offensiva di terra. Se Israele inizierà a colpire in maniera abnorme uccidendo civili, se la situazione diventerà drammatica a Gaza e se non si riuscirà a evacuare le persone dalla Striscia è chiaro che ci sono buone possibilità che Stati uniti, Unione europea e Onu possano chiedere una de-escalation.

Twitter: @GianniRosini

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