Qualche tempo fa mi è capitato di sentire in tv una cosa che mi ha fatto davvero sobbalzare sulla poltrona. Si parlava, nel corso di un talk, delle cause dell’alluvione in Romagna e, nella sua costante difesa dell’attività del governo Meloni, il direttore Sallusti disse che certe catastrofi sono inevitabili, che cercare responsabilità in una simile occasione sarebbe come attribuire a qualcuno colpe che riguardano solo la natura, come nel caso del Vajont.

Sallusti, che nell’occasione sbagliò pure la data del tragico evento, ha dei precedenti illustri in questa lettura superficiale e fuorviante della tragedia. Il Vajont è stato un po’ la Caporetto del giornalismo italiano. Tutti in questi giorni hanno citato il meraviglioso incipit dell’articolo che Pansa scrisse allora per La Stampa; ma accanto agli esempi virtuosi sarebbe bene ricordare le scivolate di grandi firme come Buzzati che parlò di natura matrigna o di Montanelli che, dopo il disastro, accusò di sciacallaggio L’Unità che in realtà, da mesi, denunciava il pericolo e le responsabilità della Sade, la società che gestiva la diga. Altro che sciacallaggio.

Ora, chiedere a Sallusti di vedere, per chiarirsi un po’ le idee, il celebre spettacolo teatrale, opportunamente ritrasmesso da Rai 5 la sera del 9 ottobre, è forse un po’ troppo. Troppo distanti i due mondi, quello di Sallusti e quello di Vacis e Paolini. Ma un’occhiata al documentario prodotto e trasmesso nella stessa serata da una rete meno schierata come Focus, quella la potrebbe dare anche Sallusti, insieme al quasi mezzo milione di telespettatori che l’hanno già fatto, senza aspettare il mio suggerimento. Per per la rete è un gran colpo e strameritato, perché il documentario di Luigi Bignami è bellissimo. Ovviamente l’impostazione, in linea con il carattere di divulgazione scientifica della rete, è diversa dalle ormai varie produzioni cinematografiche e televisive sul tema. Qui la lettura privilegia, per spazio e profondità, l’aspetto geologico e ingegneristico dell’avvenimento. Lo fa grazie al contributo degli studiosi del Politecnico di Milano e dell’Università Bicocca. Ma soprattutto lo fa in maniera chiarissima. Grazie a eloquenti e affascinanti inquadrature dall’alto dei luoghi in cui è avvenuto il disastro e grazie alle precise e chiare ricostruzioni in computergrafica, finalmente anche chi come me è digiuno di competenze scientifiche ha potuto capire la dinamica del terribile fenomeno, le varie onde, la loro portata, il loro percorso, la loro origine.

Ma c’è di più. Questa componente scientifica, prevalente dal punto di vista quantitativo, non impedisce al documentario di scendere sul piano umano e politico. Lo fa con intensità commovente e senza scrupoli. Bastano, per un giudizio politico, le prime pagine dei giornali dell’epoca sfogliate nell’incipit del doc, con il contrasto tra la titolazione fatalistica e retorica dei grandi quotidiani contrapposta alle immediate denunce presenti su L’Unità. Ma ancor più incisive, da brividi, sono le testimonianze: quelle dei sopravvissuti che hanno perso genitori, amici, compagni di scuola e che rievocano la terribile esperienza parlando soprattutto del vento che li investì ancor prima dell’acqua; quella della curatrice del museo sorto nei pressi di Longarone, talmente convincente che ho deciso di visitarlo insieme con il cimitero divenuto monumento nazionale; quella di Corona, molto netto, estremo nei suoi giudizi e in questo caso altrettanto lucido.

Un ultimo dato: il documentario dopo la programmazione nella prima serata del 9 è ancora in replica su Focus. Lo consiglio ai miei venticinque lettori, oltre che a Sallusti.

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